* Il presente lavoro riproduce, con alcune integrazioni, la relazione svolta nel corso della tavola rotonda “Il metodo nel diritto commerciale”, tenutasi il 22 febbraio 2019 nell’ambito del X Convegno annuale dell'Associazione "Orizzonti del diritto commerciale".
Il paper inizia rilevando criticamente l’attuale tendenza a emarginare dal centro degli interessi degli studiosi di diritto commerciale l’area dei contratti, proprio quella in cui più significativa può essere una distinzione fra diritto civile e commerciale. Si chiede poi se e in che senso si ponga oggi una qualche esigenza di specificità per il metodo degli studiosi del secondo, rilevando che esso non può consistere semplicemente in una maggiore considerazione dei dati della realtà: poiché in effetti ogni metodo ritiene di essere più «realistico» degli altri e la distinzione riguarda invece il modo di concepire la «realtà». Viene quindi osservato che, trattandosi di far riferimento alla «prassi degli affari», la tematica si caratterizza essenzialmente per i tempi dei suoi mutamenti: con la conseguenza che chi ne fa oggetto di studio è indotto a operare sulla base di modelli approssimativi, con particolare valenza della prospettiva della Typuslehre, e utilizzando più che in altri settori lo strumento dell’analogia.
* This article is an expanded version of the talk given at the roundtable on “Il metodo nel diritto commerciale” that was held on 22 February 2019 at the Tenth Annual Conference of the ODC Association.
On method in business law
The paper begins by critically noting the current tendency to marginalize from the center of the interests of commercial law scholars the area of contracts, the one where the most significant distinction can be made between civil and commercial law. It raises then the question whether and in what sense there is today some need for specificity for the method for studying the second, and it is noted that it cannot consist simply in a greater consideration of the data of reality: since in fact each method believes to be more «realistic» than the others and the distinction instead concerns the way of conceiving «reality». It is therefore noted that, since it is a matter of referring to «business practice», the subject is essentially characterized by the timing of its changes: with the consequence that those who study it are led to operate on the basis of approximative models, with particular value of the perspective of the Typuslehre, and using more than in other sectors the instrument of analogy.
Keywords: business law – contract law – legal method
CONTENUTI CORRELATI: diritto dei contratti - metodo giuridico - diritto commerciale
1. L'inquietudine del giuscommercialista. - 2. L'analisi economica del diritto e i suoi modelli. - 3. Il significato del riferimento alla prassi degli affari. - 4. Il ruolo della Typuslehre e dell'analogia. - 5. La tecnica della comparazione. - 6. Il diritto commerciale e la revisione dei paradigmi del diritto privato.
Penso che, imponendomi l’ordine alfabetico di prendere per primo la parola (un po’ come spesso mi accadeva a scuola), sia giustificato che io mi interroghi e vi interroghi riguardo alle ragioni e al senso di questa tavola rotonda. E credo anche di poter rispondere che essi debbano rinvenirsi al fondo in un dato in certo modo costante, direi di lunga durata, per gli studiosi di diritto commerciale, ma rispetto al quale ci si deve ora chiedere se e per quali aspetti si presentino elementi di novità in grado da renderlo nuovamente attuale. Il dato costante è un senso di inquietudine degli studiosi del diritto commerciale in merito alla propria identità e all’identità della materia che studiano: un senso di inquietudine che in certi periodi è rimosso e in altri riemerge e viene proposto al pubblico dibattito. E credo non vi sia dubbio che siamo ora in una di queste fasi. Basta ricordare i recenti interventi di Mario Libertini, che rappresentano la base di partenza necessaria per la discussione attuale, e che pochi mesi fa si è tenuto un incontro, con la partecipazione di parte dei presenti nell’attuale tavola rotonda, che in un certo modo introduce quello di oggi. Interpreto quindi l’invito a parteciparvi come quello a interrogarsi se e in che termini la tradizionale inquietudine dei commercialisti in merito al proprio essere possa ritenersi giustificata e, soprattutto, se questa nuova attualità del tema abbia ragioni diverse oppure no rispetto a quando il problema si è posto nel passato. In proposito darei per scontato che certamente non si tratti più, come alle origini, di un problema di affermare la dignità scientifica della materia e così, in definitiva, il prestigio di coloro che la studiano. Da questo punto di vista credo da tempo conclusa la lunga battaglia iniziata nell’ottocento. Non avrebbe ora più senso, evidentemente, un complesso di inferiorità del commercialista nei confronti dei civilisti e la situazione potrebbe in un certo senso ritenersi ribaltata: i civilisti, in effetti, tendono per lo più a trascurare temi tipicamente di loro pertinenza (si pensi al secondo libro del codice civile, ma anche, in buona misura, al primo e al terzo) e a dedicarsi soprattutto al diritto degli affari. Mi verrebbe da dire che i civilisti tendono oggi a presentarsi (e aggiungerei con una punta di malignità: [...]
Ma se questi aspetti riguardano essenzialmente il sistema, come cioè l’interprete ritiene opportuno costruirlo e così anche delimitarlo, non possono non riguardare anche il metodo di cui avvalersi per tale opera di costruzione e, poi, per la concreta ricerca delle singole soluzioni applicative. Da ciò l’interrogativo che oggi ci viene posto, se lo studio di quello che chiamiamo «diritto commerciale» richiede o comunque di fatto utilizza un metodo dotato di una qualche particolarità rispetto a quello praticato per altri ambiti dell’esperienza giuridica. Del resto, non credo vi sia bisogno di ricordare che anche, se non soprattutto, sul piano del metodo volevano caratterizzarsi i commercialisti che operarono in quella che possiamo chiamare la fase della fondazione: basta pensare, per tutti, a Cesare Vivante. E ancora oggi, come sappiamo, è diffusa l’immagine di un «commercialista» che vuole essere vicino, più o meno rozzamente, alla realtà e contrapposta, a volte con un qualche compiacimento nell’autorappresentazione, a quella di un civilista che opererebbe invece con i concetti e le astrazioni. Si tratta però di un’immagine che a me pare evidentemente fuorviante e della quale credo necessario sbarazzarci il più presto possibile. Mi limito a giustificare questa mia osservazione con alcune considerazioni, fra le tante e ben più impegnative, che nella loro banalità mi sembrano inequivocabili. Si può osservare in primo luogo che tale affermazione di aderenza alla realtà, e la critica come astratte delle metodologie che non si vogliono seguire, è una costante assoluta di ogni nuova proposta di metodo. Non conosco in effetti studiosi i quali abbiano addotto a proprio sostegno il fatto di essere astratti e distanti dalla realtà. Ogni metodologia, a ben guardare, si presenta come strumento per meglio comprendere la realtà: sicché, in definitiva, la questione riguarda soprattutto la «realtà» che si vuole comprendere, il tema, mi verrebbe da dire con un esempio impressionistico, se siano più reali le idee platoniche o la loro ombra nelle caverne. Il punto potrebbe essere illustrato con riferimento a temi per noi giuristi ben più attuali considerando il ruolo che attualmente sembra svolgere l’analisi economica [...]
Se così è, e se la ricerca delle peculiarità di un settore dell’esperienza giuridica come quello che chiamiamo «diritto commerciale» non può prescindere da, ma anzi si concentra su, l’esperienza culturale dei suoi studiosi; se ciò può avere un senso in quanto sia possibile riconoscere una qualche continuità di tale esperienza nel tempo e pur mutando il diritto positivo, poiché in mancanza di tale continuità non vi sarebbe motivo per parlare ancora di «diritto commerciale» (salvo negarne la storicità e intenderlo, ma con implicazioni ideologiche che mi paiono di particolare gravità, come una categoria permanente del pensiero umano); se tutto ciò si condivide, parlare del metodo nel diritto commerciale non può iniziare se non con una valutazione, come quella di recente avviata proprio da Mario Libertini, del metodo con cui la categoria è stata storicamente fondata, quello che nella fase della fondazione veniva in certo modo rivendicato per caratterizzarla. In certo modo era proprio con il metodo che si voleva definire il diritto commerciale che si stava creando. Non vi è bisogno di dire che mi sto riferendo a Cesare Vivante e al c.d. «metodo dell’economia». E penso in proposito, al fine di valutarne in estrema sintesi le implicazioni politiche, di potermi avvalere di alcune belle pagine di Giuseppe Terranova, destinate a far parte di un più ampio saggio la cui redazione è ancora in corso di completamento e che l’amico mi ha consentito di leggere. Il punto che qui mi interessa è quello ove viene operato un confronto fra le due linee di pensiero che hanno segnato la prima storia della nostra materia, quella appunto di Cesare Vivante e l’altra contrapposta di Alfredo Rocco: questa che si collocava in una scelta di fondo nazionalista e statalista; e quella che, seppur non certamente giusnaturalistica come le si voleva imputare, sottolineava soprattutto il ruolo nella materia della prassi degli affari, e allora anche la sua dimensione cosmopolita. Ciò che credo meriti di essere sottolineato, e mi pare poter assumere significato dal punto di vista propriamente metodologico, non è il riferimento alla prassi: esso, a ben guardare, senza dubbio non è esclusivo dell’ambiente [...]
Da questa impronta originaria, pur qui richiamata in modo insopportabilmente generico e approssimativo, derivano a mio modo di vedere significative implicazioni metodologiche che vorrei tentare di sintetizzare con alcuni, pur essi inevitabilmente generici, cenni. Mi pare in primo luogo che questo guardare a prassi in cui è fisiologica l’emersione di novità, ponendosi allora l’esigenza di confrontarle con le scelte normative dell’ordinamento (in certo modo per definizione alle prime preesistenti), comporta inevitabilmente un più accentuato ricorso allo strumento dell’analogia e comporta inoltre, per l’esigenza appunto di confrontare prassi nuove con regole che loro preesistono, un altrettanto inevitabile grado di approssimazione. Perciò mi è sempre sembrata significativa per lo studio del diritto commerciale, anche se di essa certo non esclusiva, la Typuslehre, quella in particolare elaborata e discussa da Karl Larenz e dalla sua scuola, in particolare Claus-Wilhelm Canaris e Detlef Leenen: l’esigenza di distinguere fra due modi di ragionare, quello che si avvale di «concetti», che definiscono una classe, allora rigidamente determinando i requisiti per appartenervi, ovvero di «tipi», che non sono definiti ma descritti, e la sussunzione nei quali avviene non verificando analiticamente la presenza in concreto di singoli requisiti, bensì alla luce di un complessivo Erscheinigungsbild. E del resto, se la materia contrattuale costituisce il più importante e significativo banco di prova della «commercialità», è anche significativo che l’utilizzazione e la sperimentazione di nuovi modelli di contratto per un verso sia uno degli aspetti in cui concretamente più si manifesta la ricerca dell’innovazione nella prassi degli affari, per un altro verso rappresenti uno dei campi applicativi privilegiati della Typuslehre. Il punto è notissimo e non mi soffermo ulteriormente. Vorrei solo sottolineare, a scanso di non infrequenti equivoci, che il «tipo» cui mi riferisco, seppur alla sua costruzione non sono certamente estranei i dati empirici che possono derivarsi dalla realtà effettuale (e in questo senso presenta non irrilevanti punti di contatto con la «tipologia della realtà» di cui discorreva Tullio Ascarelli) è soprattutto [...]
Questo ruolo della Typuslehre e dell’analogia rappresentano, come evidente, non tanto delle specificità dello studio del diritto commerciale, quanto una più spiccata accentuazione di strumenti in effetti utilizzati e utilizzabili pure in altri settori dell’ordinamento: accentuazione che consegue alla caratteristica della prassi degli affari di tendere permanentemente all’innovazione. Ma si tratta di una prassi che si presenta in gran parte anche con un’ulteriore caratteristica, quella di svolgersi in una dimensione che un tempo veniva chiamata cosmopolita e ora transnazionale: con riferimento alla quale, osserverei incidentalmente, ancor più oggi possono comprendersi i timori presenti nella posizione di Alfredo Rocco, che il suo ruolo potesse servire ai ceti interessati per sottrarsi alle scelte politiche dell’ordinamento. Perciò nello studio del diritto commerciale, di nuovo in maniera certo non esclusiva, ma in termini più accentuati rispetto a quanto avviene per altre materie e ambiti disciplinari, è tradizionale l’uso della tecnica della comparazione (la quale, osserverei incidentalmente, più o meno consciamente opera con «tipi» e con forme di pensiero analogico). Essa risulta in effetti ben più che utile, ma necessaria, quando si devono considerare prassi formatesi in contesti stranieri ovvero transnazionali: di esse è necessario comprendere il senso e ciò non può avvenire se non in un’attenta considerazione del ruolo svolto da tali contesti, quindi anche del relativo assetto ordinamentale, per la loro formazione. Sicché per noi la comparazione non ha solo un pur importante ruolo conoscitivo e non si esaurisce nel confronto fra soluzioni normative di ordinamenti differenti, ma contribuisce in maniera essenziale alla comprensione della prassi che si deve regolare e a chiedersi quale può essere il suo significato per il nostro ordinamento, alla luce perciò delle sue caratteristiche complessive e delle scelte politiche che lo ispirano. Per questo motivo mi preme sottolineare che la comparazione di cui discorro, e che mi sembra di fondamentale rilievo per lo studio del diritto commerciale, non può certo essere confusa né con la mera conoscenza né con la ricezione del diritto straniero all’interno dell’ordinamento. Non con la prima, che è pur [...]