Nell’articolo gli Autori si propongono di dare alla società benefit una collocazione sistematica all’interno di quello che chiamano capitalismo degli investitori e sostengono che lo schema dell’agency theory si rivela uno strumento insufficiente per descrivere le società in questo contesto. Gli autori analizzano la società benefit nell’ambito del dibattito sulla responsabilità sociale delle imprese e assumono la posizione per cui, piuttosto che per risolvere un conflitto tra azionisti e stakeholders, la società benefit va considerata come strumento per gli investitori per manifestare e ordinare le proprie preferenze vero la RSI e il perseguimento di scopi diversi da quello di lucro.
In this paper the Authors try a systematic collocation of the benefit corporation within what they call investor capitalism and argue that the consolidated lens of the agency theory becomes a poor device to describe the corporation in this context. They consider the benefit corporation in the context of the CSR debate and take the position that rather than solving a shareholders-stakeholders conflict, the benefit corporation is better seen as an instrument for investors to reveal and order their preferences regarding CSR and the pursuit of non for profit objectives.
KEYWORDS: benefit company – investor capitalism – agency theory – CSR
CONTENUTI CORRELATI: società benefit - investor capitalism - agency theory - RSI
1. Introduzione - 2. L’investor capitalism - 3. Le caratteristiche della società benefit - 4. I principali problemi interpretativi - 5. Il beneficio comune disatteso e la responsabilità della società benefit - 6. Conclusione: gli investitori con preferenze benefit nel sistema del diritto delle spa - NOTE
La nostra tesi è che la disciplina della società benefit non risolve un conflitto distributivo tra, da una parte, i soci (concepiti come un insieme indifferenziato) e, dall'altra, altri stakeholders, ma è uno strumento messo a disposizione dei soci investitori per consentire loro di ordinare e coordinare divergenti visioni in ordine al tipo e alla natura delle attività in cui le risorse finanziarie da essi investite possono essere impiegate [1]. La società benefit trova perciò la sua collocazione istituzionale nell'ambito delle forme giuridiche che l'ordinamento pone a disposizione dei singoli per consentire, e spesso per incentivare, l'esercizio, da parte loro, di attività economiche private. In questa prospettiva (incentivare la creazione di imprese private), e in un sistema capitalistico mercantile, in cui le imprese sono create e sopravvivono quasi esclusivamente per volontà degli investitori in grado di fornire loro le risorse finanziarie necessarie [2], la possibilità per gli investitori di esprimere (e vedere tutelate dalla legge) le proprie preferenze sulle varie possibili combinazioni tra perseguimento del profitto e riconoscimento degli interessi dei vari stakeholders , può rivelarsi un importante fattore di crescita economica. Per cui, in estrema sintesi: la società benefit non è stata secondo noi concepita come uno strumento di empowerment degli stakeholders non finanziari, ma come uno strumento di valorizzazione dell'autonomia dei soci-investitori. Da un altro, ma complementare, punto di vista, la nostra tesi è che la società benefit è coerente con una prospettiva di teorizzazione del diritto societario non più centrata - come era ed è nella visione dell'analisi economica del diritto e nella c.d. agency theory - sul rapporto tra i soci - concepiti come un insieme di soggetti portatori di interessi omogenei tra loro - e i gestori, ma centrata, invece, sulle esigenze di funzionamento del mercato finanziario, sul rapporto delle varie componenti della società con i mercati, e su una concezione dei soci non come stabili partecipanti ad una impresa comune, ma come investitori, attenti, ed attivi, molto più sui mercati, che all'interno delle singole società. Una prospettiva che prende atto del fatto che nel corso degli anni i problemi della società per azioni si sono [...]
La società benefit va pensata, e collocata sistematicamente, all'interno di un modello di investor capitalism, un capitalismo ormai molto lontano dalle diverse versioni del capitalismo manageriale, sia quelle dominanti nel secondo dopoguerra, sia quella che per qualche decennio è a nostro avviso sopravvissuta (sia pure trasformata ) alla svolta degli anni 70-80 del secolo scorso che condusse all'affermazione, presto divenuta pressoché incontrastata, della c.d. agency theory [4]. Di questa affermazione, e della periodizzazione che essa implica (in particolare per quanto attiene alla portata della svolta che ha posto al centro il tema degli agency costs), non è possibile dare qui completo conto. Come non è ovviamente qui possibile affrontare una discussione complessiva relativa ai modelli di organizzazione e governo della società per azioni succedutisi negli anni del secondo dopoguerra, e alla loro connessione con il riconosciuto fenomeno della c.d. finanziarizzazione complessiva dell'economia capitalistica. Il riferimento all'investor capitalism serve in questo contesto solo a mettere in luce due punti che sono a nostro avviso essenziali per un corretto inquadramento dei problemi della società benefit. Il primo, e principale, riguarda la necessità di abbandonare lo schema dell'agency theory, sia nella parte in cui pensa i soci di una società come una collettività portatrice di un interesse omogeneo, in sostanza come un unico principal, sia nella parte in cui pensa che il comportamento dell'agent possa essere condizionato da meccanismi automatici di mercato senza necessità di un attivo coinvolgimento del principal [5]. Sul ruolo complessivo svolto dall'agency theory in collegamento con la tesi dello shareholder value occorrerebbe una approfondita riflessione di carattere anche storico. È per esempio dubbio, a nostro avviso, che l'agency theory abbia comportato, con riferimento al potere dei managers, una svolta in senso radicalmente restrittivo, come ci si sarebbe dovuti aspettare da una teoria in cui la protezione dei soci nei confronti della discrezionalità dei managers sembra essere l'obiettivo principale. Rispetto alla realtà implicata dalle precedenti concezioni managerialiste, dominanti nei primi decenni del secondo dopo-guerra, l'agency theory ha probabilmente avuto sulla posizione dei managers effetti tutt'altro che [...]
La prima importante caratteristica della società benefit è che essa nasce, come qualsiasi altra società, per volontà di una e una sola precisa categoria di stakeholders, vale a dire i soci. Ai soci non spetta però soltanto la decisione di dare vita ad una società benefit, ma anche la scelta delle "finalità di beneficio comune" che la stessa dovrà perseguire. Sotto questo aspetto, la legge sembra infatti lasciare ai soci grandi margini di libertà sia sulla quantità, sia sulla qualità delle finalità da perseguire. I requisiti minimi previsti dalla legge sembrano limitarsi ai seguenti. In primo luogo, la società benefit deve perseguire, accanto alle finalità di beneficio comune, anche lo "scopo di dividere gli utili" derivanti dall'attività economica esercitata. Anche qui, per la verità, la legge non è chiarissima. Tanto per cominciare fa riferimento allo scopo lucrativo pur essendo, come abbiamo visto, ben possibile che la società benefit abbia la forma della società cooperativa. A parte questo, sembra comunque che ciò che la legge intende dire è che la società benefit ha quale caratteristica quella di combinare l'attività economica con scopo lucrativo - tipica della società quale forma di esercizio collettivo dell'impresa - con le finalità di beneficio comune; anzi, stando alla lettera della legge, la società benefit persegue le finalità di beneficio comune "nell'esercizio di un'attività economica", come a confermare che si tratta proprio di una modalità di esercizio di un'attività di impresa (lucrativa, per giunta). La legge dà poi una definizione di finalità di beneficio comune. Per "beneficio comune" si intende infatti "il perseguimento, nell'esercizio dell'attività economica delle società benefit, di uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi, su una o più categorie di cui al comma 376". A loro volta, le categorie di cui al comma 376 sono "persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse" - dove, infine, per "altri portatori di interesse" si intendono "il soggetto o i gruppi di soggetti coinvolti, direttamente o indirettamente, dall'attività delle società di cui al comma [...]
Venendo all'interpretazione sistematica della disciplina, un primo problema, cruciale per la collocazione dell'istituto, è quello di definire la fattispecie "società benefit". Il quadro disegnato dalla legge è alquanto ambiguo. Da una parte, la legge esordisce disponendo che le sue disposizioni "hanno lo scopo di promuovere la costituzione e favorire la diffusione di società, di seguito denominate 'società benefit', che nell'esercizio di una attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse" (comma 376). E aggiunge, come abbiamo già visto, che la società benefit deve "indicare specificatamente" le finalità dalla stessa perseguite nel suo oggetto sociale (art. 1, commi 377 e 379). Dall'altra parte, la stessa legge prevede che le società diverse dalle società benefit che intendono perseguire anche "finalità di beneficio comune" devono modificare di conseguenza l'atto costitutivo o lo statuto e darne pubblicità secondo le regole previste per ciascun tipo sociale [12]. Il complesso di queste disposizioni crea almeno due diversi tipi di ambiguità. Innanzitutto: il comma 376 definisce la fattispecie "società benefit"? Dalla sua formulazione questo non emerge con chiarezza. Se, si conclude comunque in questo senso, quale parte della norma effettivamente definisce la fattispecie (e quale parte, eventualmente, contiene invece la disciplina della società benefit, e non la sua definizione)? Inoltre: cosa significa la disposizione del comma 379? La modificazione dell'atto costitutivo significa che la società non benefit che modifica il proprio statuto "si trasforma" in una società benefit, oppure resta una non benefit che persegue tuttavia finalità di beneficio comune? Pur riconoscendo che queste ambiguità rendono possibili interpretazioni diverse, a noi sembra che la meno problematica possa essere la seguente. La fattispecie rilevante è quella della società che inserisce nel suo statuto il vincolo al perseguimento di specifiche finalità di beneficio comune. Le società che inseriscono questo vincolo [...]
Per l'ipotesi in cui il perseguimento del beneficio comune venga disatteso, la legge non attribuisce agli stakeholders che sarebbero stati avvantaggiati dal suo perseguimento alcuno specifico rimedio. Tale non può essere considerato quello previsto al comma 384, a norma del quale "la società benefit che non persegua le finalità di beneficio comune è soggetta alle disposizioni di cui al decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145, in materia di pubblicità ingannevole e alle disposizioni del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206. L'Autorità garante della concorrenza e del mercato svolge i relativi compiti o attività (…)". È possibile che la norma possa finire per introdurre (magari anche molto al di là delle intenzioni del legislatore) una forma di potenziale intervento sanzionatorio nei confronti della società benefit che avesse a non rispettare l'impegno a realizzare i benefici comuni per cui si era impegnata. Quel che è certo però è che l'eventuale protezione degli stakeholders delusi dal mancato adempimento delle promesse della società benefit resterebbe comunque indiretta. La protezione riguarderebbe in via diretta consumatori e professionisti, non in quanto stakeholders, e cioè in quanto portatori di interessi non finanziari al buon funzionamento delle imprese, ma in quanto controparti mercantili delle imprese. L'oggetto diretto e principale di tutela non è quindi la responsabilizzazione dell'impresa verso i suoi stakeholders, ma il buon funzionamento del mercato e la lotta contro le c.d. market failures. Agli stakeholders restano perciò i rimedi eventualmente esercitabili in base al diritto comune, tenendo presente che manca nella nostra legge una previsione espressa, come quella della model legislation americana [14], che escluda la possibilità per soggetti diversi (dalla società, e) dagli azionisti di far valere l'inadempimento della società benefit o dei suoi amministratori allo scopo di beneficio comune (generale o specifico) [15]. Forse il nostro legislatore intendeva muoversi nella medesima direzione degli ordinamenti statunitensi, là dove con il comma 381, ha disposto che "l'inosservanza degli obblighi di cui al comma 380 può costituire inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge e dallo statuto. In caso di [...]
Accantonando i dubbi sollevati nel paragrafo precedente, e immaginando una società benefit (molto simile a quella americana) in cui gli stakeholders non possono esercitare alcuna azione e nessuno ha i poteri per sanzionare il mancato perseguimento del benefico promesso, non è difficile osservare come l'introduzione di un modello di società ad hoc in cui i soci godono di ampia autonomia nell' ordinare le proprie (diverse) preferenze in una certa combinazione tra perseguimento del profitto e realizzazione di benefici per (uno o più) stakeholders, colmi una lacuna e consenta che le diverse preferenze degli investitori possano essere incanalate in maniera più ordinata e sicura. D'ora in poi gli investitori interessati al perseguimento dell'uno o dell'altro beneficio comune potranno investire nella società che soddisfa al meglio le loro preferenze con la garanzia, da una parte, che nessun socio di minoranza potrà opporsi al perseguimento del beneficio definito nello statuto e, dall'altra, che la stessa maggioranza, e gli amministratori da essa nominati, dovranno in caso che il beneficio venga disatteso, sopportare le reazioni degli investitori dissenzienti, reazioni che potranno essere tanto più energiche quanto più preciso e concreto sia il beneficio definito nello statuto. In conclusione, se si osserva la società benefit non dal punto di vista della creazione di uno strumento di empowerment degli stakeholders non finanziari, ma da quello di uno strumento di composizione di possibili contrasti tra investitori, essa viene a contrapporsi alle società lucrative ordinarie in una più che coerente e ragionevole divisione dei ruoli. Se si osserva il sistema da questo (dei soci-investitori) punto di vista, e non si dimentica che gli amministratori devono tenere conto degli interessi di costoro non solo per evitare possibili azioni di responsabilità, ma anche per garantirsi la permanenza in carica, potremmo ricostruire il quadro seguente. Assumendo come oggetto la possibilità di effettuare scelte che riducono i profitti a beneficio dell'interesse di qualcuno degli stakeholders diversi dai soci, e come variabile il potere dei soci al riguardo, possiamo ricostruire il seguente schema. Nelle società esclusivamente lucrative le scelte in questione: - se si accetta la teoria dello shareholder value [17] (e se si interpreta letteralmente il comma [...]