* Il presente lavoro riproduce, con alcune integrazioni, la relazione svolta nel corso della tavola rotonda “Il metodo nel diritto commerciale”, tenutasi il 22 febbraio 2019 nell’ambito del X Convegno annuale dell'Associazione "Orizzonti del diritto commerciale".
L’autore sostiene che negli studi di diritto la questione dell’oggetto della ricerca non dovrebbe essere confusa con quella del metodo; e che la prima precede la seconda, così che il modo di affrontare questa dipende in larga misura dalla soluzione che si è data a quella. Egli dà alla prima questione il nome di «problema del positivismo giuridico» e quindi distingue cinque significati di tale concetto, giungendo alla conclusione che il positivismo, nonostante i suoi molti nemici, debba considerarsi sia (i) possibile, sia (ii) desiderabile. Negare ciò è possibile se, e solo se, si rifiuti la tradizione intellettuale e politica di civil law, la quale è basata sulla sovranità del popolo, la formazione democratica della legge ad opera dei rappresentanti eletti appunto dal popolo e la uguale soggezione ad essa di tutti i cittadini. Quanto allo status euristico della scienza giuridica, cioè delle asserzioni riguardanti l’interpretazione della legge, occorre riconoscere che è impossibile dare una dimostrazione assoluta e inconfutabile circa il significato da darsi ad un precetto legale «generale ed astratto» con riferimento ad un fatto singolo e concreto. Ciò nonostante, il sapere legale, quantunque imperfetto, è accettabile ed idoneo ad assolvere i suoi compiti pratici. Dopo tutto, non si dovrebbe dimenticare che la conoscenza umana è sempre imperfetta, anche se in grado differente: ed invero siamo oggi consapevoli che sia le scienze naturali (fisica, biologia, chimica ecc.), che sono basate sull’induzione, sia le scienze logico-matematico-geometriche, che sono invece di natura deduttiva, non danno alcuna garanzia di pervenire a verità assoluta; e tuttavia esse permangono della più grande utilità. Per ciò che attiene al metodo nel senso proprio del termine, non c’è molto da dire. Giuristi accademici e giudici si servono di un certo numero di attrezzi tradizionali (argumentum a simili, a fortiori ecc.) e, presto o tardi raggiungono, attraverso lo studio e la discussione, un’opinione comune circa la soluzione da darsi a ciascuno problema interpretativo. E ciò è tutto quanto occorre al conseguimento dello scopo essenziale, ossia alla determinazione di una regola ex ante di governo delle relazioni umane.
* This article is an expanded version of the talk given at the roundtable on “Il metodo nel diritto commerciale” that was held on 22 February 2019 at the Tenth Annual Conference of the ODC Association.
On method in business law
The author expresses the opinion that in legal studies the object of the enquire ought not to be confused with that of the method; and that the former comes first. Therefore, the way one can deal with the latter largely depends on the answer given to the former.
He names the first issue «problem of the legal positivism» and then identifies five meanings of such concept. He reaches the conclusion that positivism, in spite of its many enemies, is both (i) possible and (ii) desirable. Denial of such conclusion would be possible if, and only if, one refuses the western intellectual and political tradition (especially that of civil law countries) which is based on the sovereignty of the people, the democratic formation of the law and the equal subjection of all the citizens to it.
As to the heuristic status of legal science (that is of assertions about the interpretation of the law), one must admit that it is impossible to give an absolute and irrefutable demonstration of the meaning to be given to a «general and abstract» rule of law with reference to a specific and actual fact. Nevertheless, legal knowledge, although imperfect, is acceptable and apt to serve its practical goals. After all, one should not forget that human knowledge is always imperfect, even if up to different levels. As a matter of fact, we are aware that (i) natural sciences (physics, biology, chemistry and so on) which are based on induction and (ii) logical, mathematical and geometrical sciences which instead have a deductive nature, give no guarantee of an absolute truth; and even so they remain of great usefulness.
As far as the method (in the proper sense of the term) is concerned, little can be said. Legal scholars and judges make use of a number of traditional tools (argumentum a simili, a fortiori etc.) and sooner or later they reach, through study and discussions amongst themselves, a common opinion about the way to solve each interpretation problem. And that is all that is needed to ensure the essential scope, namely the establishment of an ex ante and consistent rule to govern human relationships.
Keywords: business law – legal method – legal positivism
CONTENUTI CORRELATI: diritto commerciale - metodo giuridico - positivismo giuridico
1. Premessa. - 2. Giuristi e teorici del metodo. - 3. La questione dell’oggetto viene prima di quella del metodo. - 4. L’oggetto è (per me) il diritto positivo: cinque significati di «positivismo». - 5. Positivismo come scelta ideologica. - 6. Il cimento del giurista positivo: dare alla quaestio concreta soluzione conforme con la regola generale ed astratta. - 7. La cassetta degli attrezzi. - 8. L'utensile più chiacchierato: il c.d. dogma giuridico e la teoria algoritmica della complessità. - 9. Valore euristico del sapere giuridico e del sapere umano. - 10. Il diritto e la giustizia dei tarocchi. - 11. Specificità del metodo nel diritto commerciale? - 12. Il modus operandi del giurista e il «metodo Casablanca». - NOTE
«L’unico metodo è quello di essere intelligenti». Non lo dico io. Lo dice il poeta (nella specie: Thomas Stearns Eliot). E gli fa eco un filologo e critico della statura di Gianfranco Contini: «non esistono grandi metodi critici; esistono grandi critici». Se vogliamo dare retta a questi peraltro autorevoli signori, molti problemi si risolvono subito, anche se se ne apre qualcun altro. Cominciamo da quello a cui, lo so, state tutti pensando: la mia mancanza di legittimazione, per usare il gergo di noi avvocati, a parlarvi del tema. Avete perfettamente ragione, naturalmente. Ma c’è di più. Quand’anche quella legittimazione l’avessi, a che cosa servirebbe utilizzarla per dare indicazioni ad altri? Dalle premesse discende infatti che o gli interlocutori sono intelligenti (come è nel nostro caso), e allora non si può insegnare loro ciò che sanno già; oppure non lo sono, e allora non si può insegnare loro ciò che non hanno possibilità di apprendere. Un’impresa, per dirla in breve, che cessa di essere superflua solo quando diviene impossibile. Paradossalmente (forse), sono proprio queste sconfortanti considerazioni che mi danno il coraggio di affrontare, nei ventisette minuti che (se ho fatto bene i calcoli) mi spettano, questo po’ po’ di tema con la leggerezza e l’incoscienza necessarie.
Cerco dunque di procedere telegraficamente. Una prima ragione di disagio che mi sembra di dover denunciare è la seguente. C’è un confine, non certo impermeabile, ma tuttavia abbastanza netto, tra coloro che studiano i problemi di metodo e coloro che il metodo lo praticano nel loro quotidiano lavoro di giuristi, ma senza soffermarsi a riflettere e teorizzare su di esso, e spesso anche senza quasi saperlo, come monsieur Jourdain parlava in prosa. Questa spaccatura è forse comprensibile, ma non certo commendevole. Alla mia mente, essa richiama il detto di Lao Tze: «chi sa fa; chi non sa fare insegna» [1]. Il che non richiede che spieghi da quale parte mi collochi; o, meglio, aspirerei a collocarmi. Ed è una parte muovendo dalla quale il discorso sul metodo si presenta difficile per definizione. Onde mi sento pienamente legittimato (questa volta sì) a pretendere da voi (ed è qui che volevo arrivare) un giudizio improntato alla più generosa indulgenza su ciò che segue. Scherzi a parte (ma credetemi: mi costa veramente grande sforzo mettere da parte gli scherzi): si tratta, a ben vedere, di un fenomeno sconcertante. Quale significato dobbiamo attribuirgli? Qualche volta mi sorprendo a pensare che forse non c’è poi motivo di scandalizzarsi: dopo tutto, quello del pittore e quello del critico d’arte sono mestieri differenti, e nessuno ci trova da ridire. Ma è calzante il paragone? Lascio a voi di giudicare. Intanto confesso un sospetto. Da tempo rifletto, con preoccupazione, su un fenomeno che mi sembra non riscuotere l’attenzione che la sua gravità meriterebbe. Alludo al fatto che l’enorme crescita del nostro sapere collettivo in tutti i campi (eserciti di studiosi e ricercatori, oceani di pubblicazioni scientifiche in tutto il mondo) impone a ciascuno, nell’impossibilità di dominare un materiale così vasto, una scelta tragica: o rassegnarsi ad un generico dilettantismo, o ridurre l’area dei propri interessi allo studio di un settore sempre più limitato, muovendo dunque nella direzione di uno specialismo esasperato. È superfluo che io mi intrattenga a segnalare i danni e i rischi che entrambi i corni del dilemma comportano. Ciò che voglio dire è che, se anche la spaccatura tra teorici e pratici del metodo fosse una manifestazione della tendenza che ho appena denunciato, la cosa [...]
Lascio a voi queste angosciose domande e passo oltre, per dire anzitutto che propendo a pensare che la questione del metodo sia distinta da quella dell’oggetto e che questa preceda logicamente quella. Se ben si consideri, la situazione della nostra disciplina è un unico. Né il botanico, né il chimico, né il biologo si pongono (o almeno così pare a me, forse per ignoranza) il problema di stabilire quale sia l’oggetto della loro scienza. Il giurista deve invece fare una scelta preliminare, ossia indicare quale sistema di norme intenda studiare. Il diritto italiano, quello inglese, quello romano sono oggetti diversi. Ma anche il gioco del polo, il bridge, il galateo, la morale islamica, lo statuto del mio club, la Torah sono o comportano sistemi di regole e, pertanto, possibili oggetto di indagine. Quando ero giovane, insegnai per alcuni anni all’università di Sassari, ove ebbi occasione di conoscere ed apprezzare un collega, Antonio Pigliaru, che aveva studiato la vendetta barbaricina come ordinamento giuridico e aveva scritto un libro su di essa. Si obietterà che non tutti i sistemi di regole, cioè di proposizioni prescrittive, sono ordinamenti giuridici. Ma qui la differenza specifica non mi interessa e sono comunque dispostissimo ad assegnarle lo status di questione stipulativa. Ciò che mi preme è sottolineare come, molto prima che Santi Romano e qualcun altro si guadagnassero fama imperitura con la scoperta dell’acqua calda, ossia con la tesi della pluralità degli ordinamenti, fossimo tutti ben consapevoli di dover fare una scelta. O, meglio, due. Anzitutto, naturalmente, la scelta di quale ordinamento, tra i tanti possibili, eleggere ad oggetto di studio. In secondo luogo, la fissazione dei rapporti tra l’ordinamento prescelto e gli altri, eventualmente con esso concorrenti, specie se di rango equiordinato o sovraordinato.
Diamo a questo tema, tanto per intenderci, il nome di questione del positivismo e guardiamolo più da vicino. Consideriamo tutti ovvio che il diritto come lo concepiamo oggi è il frutto di un lungo processo evolutivo, attraverso il quale il fenomeno è venuto distinguendosi ed emancipandosi rispetto ad altri: la magia, la religione, la mantica, l’etica, il c.d. diritto naturale, la politica, oggi, se si vuole, l’economia, la sociologia ecc. Per alcuni questo processo si corona non solo con la riconosciuta e riconoscibile specificità dell’ordinamento giuridico rispetto ad altri sistemi di regole; ma anche con la sua chiusura esclusiva ed impermeabile rispetto a quelli. Per altri, invece, siffatta chiusura non sarebbe ermetica, dovendo la valutazione strettamente giuridica tenere conto anche di altri valori e di altre regole, e talvolta perfino cedere il passo ad esigenze considerate di ordine superiore. L’istanza positivistica e quella antipositivistica si possono tuttavia porre su piani diversi, che conviene distinguere, a costo di perdere qualche prezioso minuto. Mi provo dunque ad indicare cinque distinti significati di «positivismo», senza pretendere che l’elenco sia completo. Sul piano teorico, vi è chi considera addirittura illusoria qualunque possibilità di controllare ex ante, attraverso le norme di legge, l’operato del giudice (questo scetticismo radicale circa le possibilità di limitare l’arbitrio dell’interprete trova icastica espressione in Manzoni: «perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente»). È una posizione estrema, che credo infondata, sulla quale comunque tornerò. Ad esiti simili, ma basati questa volta su argomenti psicologici, perviene una corrente di pensiero convinta che il giudice raggiunga d’istinto e immediatamente la decisione e si serva poi di richiami alla legge per dare una giustificazione ex post alla sua conclusione. È pressappoco la dottrina dello smell test (goffa traduzione inglese dell’espressione napoletana «giurisprudenza del fetente»). Anche qui, le generalizzazioni radicali mi sembrano esagerate, ma la verificazione pare difficile, a meno che non sia affidata all’auto-analisi di ciascuno di noi. Se posso dire qualcosa circa la mia [...]
L’ultimo rilievo ci introduce infine a quella che per me è la questione, in qualche modo centrale, del positivismo in senso ideologico. Il sistema politico-giuridico occidentale (nel quale mi riconosco, per quanto sto per dire, incondizionatamente) è basato sulla sovranità del popolo, che la esercita attraverso i propri rappresentanti eletti a suffragio universale, ai quali compete la funzione legislativa. La funzione giurisdizionale compete invece ai giudici, che costituiscono un potere separato e indipendente, però soggetto alla legge e solo ad essa. Il sacrificio della mia personale libertà sull’altare dell’organizzazione democratica dello Stato di diritto in tanto si giustifica e si legittima in quanto si concreta nella soggezione ad una legge formata col concorso di tutti ed uguale per tutti. È certamente un pessimo sistema (vogliamo ricordare almeno Rousseau?) [3]. Ma tutti gli altri, chiosava Winston Churchill, sono peggiori. Esso presenta se non altro un inestimabile vantaggio. Quello di affrancare l’uomo, tutti gli uomini, dal dominio dell’uomo, per renderlo soggetto solo al dominio della legge, che è uguale per tutti. Perché quest’obiettivo sia realizzato occorre tuttavia (occorre appunto) che il giudice non mi applichi una regola da lui creata ad hoc ed ex post su misura per me. Ma mi applichi la regola precostituita ed uguale per tutti che sta nella legge, come vuole uno dei primissimi principi onde è contraddistinto appunto lo Stato di diritto. E chiedo scusa se indulgo in queste banalità. Ma, poiché esiste una agguerrita e autorevole corrente di pensiero che è schierata in modo dichiaratamente ostile ai principi appena espressi (per citare l’ultimo contributo di uno dei più illustri rappresentanti, v. il recentissimo saggio di N. LIPARI, in Riv. dir. civ., 2018, 1427 ss.), mi è parso doveroso dire in modo netto e franco da che parte sto. Se si tratta, come qualcuno dice, di «plagio illuministico», ebbene, desidero dichiarare che ne sono pienamente vittima. Sottolineo tuttavia con forza che la scelta di campo di cui ora si tratta non è in alcun modo dimostrabile. Non c’è modo di stabilire chi ha ragione e chi ha torto (se la realtà è bianca o nera), ma, come sempre avviene in questo genere [...]
In questa intelaiatura concettuale si annida peraltro una contraddizione. Se la legge deve avere i caratteri indicati, occorre che i suoi precetti siano generali ed astratti. Più un precetto è generale ed astratto, più alto è tuttavia il rischio che la sua utilizzazione per normare l’infinita varietà dei casi concreti metta capo talvolta a risultati non univoci. A me sembra che il problema sia tutto qui. Il che peraltro non è poco. Per banale che sia, forse non è del tutto inutile invero sottolineare che neppure i sostenitori più radicali del carattere creativo in senso forte dell’interpretazione intendono negare la possibilità di comunicare attraverso il linguaggio, quasi che il testo della legge fosse un coacervo di segni indecifrabili e inadatti a veicolare qualunque significato. I loro strali si appuntano piuttosto sullo iato profondo che intercorre tra il precetto immobile, generale ed astratto, da una parte, e la miriade di imprevedibili e sempre diverse occorrenze della vita, dall’altra parte; onde sarebbe illusorio credere che nel primo sia possibile trovare univoca risposta ai nuovi quesiti che dalle seconde incessantemente sono posti. La difficoltà è naturalmente reale, quantunque sia spesso esagerata[4]. Tuttavia la soluzione c’è, e consiste nel dare alla quaestio perplessa (non già la risposta che l’interprete darebbe se fosse lui il legislatore, come prescrive al giudice l’art.1 del codice civile svizzero, bensì) la risposta che si può presumere avrebbe dato lo stesso legislatore (naturalmente non inteso in senso storico e psicologico) se avesse preso in considerazione il caso. In altri termini, la regola mancante va ricostruita ricercando la soluzione che si inserisca in modo più armonico, che obbedisca ad una linea di maggiore continuità, rispetto al tessuto di quelle legificate. Per ricorrere ad un’immagine che mi piace particolarmente e della quale ho già fatto uso altre volte, dovuta alla penna illustre di Philipp Heck, il compito è simile a quello di chi debba restaurare un antico dipinto reso lacunoso dalle offese del tempo: occorre riempire i vuoti facendo il massimo sforzo per ricostruire quello che secondo ogni ragionevole elemento può assumersi fosse l’originale.
Come si fa? Nell’officina dell’interprete, come in ogni altra officina, c’è una panoplia degli attrezzi, che tutti conosciamo e maneggiamo da secoli. L’argomento a simili, quello a contrario, a fortiori, per assurdo, storico, teleologico, sistematico, desunto dalle conseguenze ecc. Provando e riprovando, attraverso errori e correzioni, la comunità degli interpreti, pratici e teorici, finisce per lo più per trovare un accordo, almeno a maggioranza. Che valore possiamo assegnare a questa soluzione? Cercherò di rispondere tra poco. Intanto voglio riaffermare che l’essenziale non è in ciò. L’essenziale – ribadisco – è che la soluzione non pretenda di legittimarsi in base ai valori dell’interprete, ai quali non riconosco alcunissima autorità, e neppure in base a quelli che l’interprete vede (o crede di vedere) galleggiare, per così dire, nell’ambiente sociale in cui vive, bensì in base a ciò che, secondo scienza e coscienza, l’interprete considera essere i valori della legge. Scrivendo queste cose, mi è tornato in mente l’episodio narrato da uno scrittore divenuto molto di moda in queste ultime settimane: Javier Marias. Il protagonista del romanzo è un traduttore. Nel prestare la sua opera in occasione dell’incontro tra due alti funzionari governativi, uno spagnolo e l’altra inglese, anziché tradurre correttamente le battute di circostanza e alquanto anodine che i due si scambiano nelle rispettive lingue, introduce nel dialogo di sua iniziativa frasi di carattere personale e suggestivo, quasi ad avviare un corteggiamento da una parte, e ad incoraggiarlo dall’altra. Può darsi (il libro non lo dice) che grazie a ciò sia nata quella benedizione degli dei che è un grande amore, e che dunque l’intervento del cupido improvvisato sia stato benefico. Ma l’esempio non è da seguire: il traduttore è anch’egli un interprete (e infatti sulla tecnica e teoria della traduzione si discute tra gli addetti ai lavori letterari non meno di quanto discutano di interpretazione i giuristi): e dall’interprete si esige prima di tutto fedeltà.
Voglio ora tornare alla questione degli attrezzi per dedicare qualche parola al più chiacchierato di essi: l’argomento dogmatico. Sul tema mi intrattenni rapidamente già alcuni anni or sono, e posso ripetere adesso quelle riflessioni senza tema di annoiare, tanto non se ne accorse nessuno. Osservavo dunque allora, sulla scorta dei saggi di un informatico (GREGORY J. CHAITIN, Teoria algoritmica della complessità), che l’intelletto umano si sforza di dominare la complessità comprimendola, ossia riportando una massa di dati, di dimensioni eventualmente anche ingentissime, ad una formula semplice, che tuttavia riesca a rappresentarli tutti. Per spiegare come ciò possa avvenire, ricorro al più banale degli esempi: una curva si compone di un’infinità di punti, onde la sua descrizione comporterebbe una serie altrettanto infinita di proposizioni, ciascuna delle quali destinata ad individuare la collocazione di un punto, in un sistema, per dire, di assi cartesiani. Eppure, una equazione, anche elementare, può fornire da sola la rappresentazione dell’intera curva. Le formule capaci di comprimere in una rappresentazione semplice una grande quantità di dati prendono appunto il nome di algoritmi. Il dogma della dottrina giuridica è un algoritmo, ossia una rappresentazione semplice (“compressa”) di una serie di regole. Così, per fare il primo esempio che mi viene in mente, è pensabile che l’interprete di un determinato ordinamento, scrutinate le regole positive riguardanti l’ipotesi di una pluralità di condebitori di un unico creditore per un’unica prestazione, e rilevato che, secondo tali regole, ogni vicenda si ripercuote in modo identico su tutti, formuli il dogma-algoritmo del rapporto obbligatorio unico facente capo a più soggetti per il lato passivo (schema c.d. «correale»). Siffatto schema, non si limita a rappresentare tutte le regole positive concernenti la figura (nonché le altre, da quelle ricavate interpretativamente), dalle quali è desunto induttivamente. Esso ha anche una potenziale capacità di generare, allora deduttivamente, ulteriori regole, costituenti sviluppo delle sue virtualità logiche (per es.: se il rapporto è unico, allora il termine di prescrizione sarà lo stesso per tutti e [...]
Quale valore euristico ha tutto questo? Poco, naturalmente. Ed è tradizionale il complesso di inferiorità del giurista rispetto ai cultori delle scienze «vere», o, come altri dice, «dure». Si propende oggi a riconoscere infatti piena dignità scientifica solo a due gruppi di discipline: le scienze della natura (chimica, fisica, biologia ecc.) e quelle logico-matematiche. Orbene, il valore euristico delle prime è fondato sull’induzione sperimentale. È noto però che le generalizzazioni induttive non sono verificabili (abbracciano un numero infinito di ipotesi, mentre gli esperimenti di controllo sono sempre in numero finito), ma solo falsificabili (se un solo esperimento dà esito negativo, allora la legge «per ogni A si dà sempre B» non è più valida). Meglio di lunghi discorsi, lo spiega la storiella del tacchino induttivista di Bertrand Russell: poiché ogni mattino vedeva comparire un uomo che recava cibo ottimo e abbondante, era giunto alla conclusione che ciò si sarebbe ripetuto per sempre; ma il giorno del Ringraziamento l’uomo si presentò senza cibo e gli tirò il collo. Apparentemente migliore è lo status delle discipline logico-matematiche, atteso che esse non si basano sull’osservazione empirica della realtà, ma sviluppano deduttivamente premesse date, e quindi conseguono risultati essenzialmente tautologici. Anche qui, tuttavia, non c’è da farsi soverchie illusioni. I teoremi di Gödel, per quel poco che ne capisco, dimostrano che neppure i sistemi assiomatici più rigorosi sono immuni da difetti che ne compromettono l’affidabilità. E dunque? Dunque la conoscenza umana è imperfetta e approssimativa in ogni campo. Sempre si procede per tentativi, errori e correzioni, verso risultati via via migliori e più attendibili, ma mai definitivi. Tuttavia, saliamo su un aereo che, grazie a migliaia di fallaci cognizioni induttive e inaffidabili calcoli matematici, ci porterà a dieci chilometri di altezza e, in poche ore, in un altro continente e non siamo affatto preoccupati. Dovremmo preoccuparci degli errori del giurista e, soprattutto, del giudice? Non particolarmente, penserei, se essi sono in buona fede e convinti in scienza e coscienza che la regola affermata è quella imposta dalla legge e non [...]
Qui vorrei aggiungere una cosa, sperando di non scandalizzarvi. Temo che, quando pensiamo a questi temi, siamo tutti inconsapevolmente influenzati dall’immagine di quella matrona popputa, così cara agli scultori accademici della belle époque (ma la tradizione iconografica è, come si sa, millenaria, e non risparmia neppure i tarocchi), con una bilancia in una mano e una spada nell’altra, nonché con una benda sugli occhi (ottima cosa quest’ultima per quanto riguarda il maneggio della bilancia; mi ha sempre un po’ preoccupato invece il maneggio alla cieca anche della spada). Oggi il diritto ha in realtà poco a che fare invece con la giustizia. Non nel senso che sia ingiusto, ma nel senso che si muove, o almeno si muove prevalentemente, su altri piani. Quando la legge stabilisce che un certo macchinario può essere ammortizzato in tre anni, che i veicoli circolanti sulla pubblica via debbono tenere la mano destra, che la presenza di un certo conservante negli alimenti non può superare una determinata percentuale, che la responsabilità delittuale si prescrive in cinque anni (non in quattro, né in sei), che le deliberazioni di un’assemblea condominiale devono essere impugnate entro trenta giorni (non, poniamo, entro un mese), ecc. ecc., la signora Giustizia non sembra tirata in campo. Si tratta di materie che devono essere regolate, ed è bene che la regola sia, oltre che stabile, chiara e certa (ciò che il nostro legislatore purtroppo non sembra aver capito). Ma, entro certi limiti (e a volte anche senza limiti: si pensi alla mano di circolazione dei veicoli), è indifferente quale sia il contenuto della regola. Mentre, in altri casi, questa risponde ad esigenze che sono solo tecniche (anche se non per ciò meno importanti). Significano questi rilievi adesione alle tesi di chi, anche molto autorevolmente, pensa che il diritto, specie quello di cui ci occupiamo, sia o debba essere destinato a risolvere essenzialmente problemi di efficienza e dilemmi del prigioniero, e non già problemi distributivi? Non me la sento di buttar lì risposte ad un quesito così impegnativo, specie in un’occasione come questa, in cui non potrei comunque motivare. E neppure mi sento di sciogliere il dubbio, che in realtà nutro da tempo senza riuscire a liberarmene, se quella tesi sia diversa da una versione del [...]
Mi avvio alla conclusione con qualche rilievo circa le specificità del diritto commerciale e circa il metodo dell’indagine in senso proprio. In linea di principio, sono riluttante a pensare che vi siano differenze significative nel metodo di studio di un settore o di un altro dell’ordinamento giuridico (o, forse, perfino di ogni altro sistema di norme). Ciò vale, secondo me, anche per la nostra materia. Sono consapevole naturalmente dell’antica ed illustre tradizione risolutamente orientata in senso opposto, ma credo che le sue ragioni siano ormai storicamente superate. Certo, riallacciandomi a quanto dicevo poco fa, la materia commerciale è assai più neutra di altre; di quella civile in senso stretto, per esempio. E ognuno vede che il richiamo del personale Rechtsgefühl si farà sentire con maggior forza a chi si occupi di aborto, di eutanasia, di matrimonio tra persone dello stesso sesso ecc., rispetto a chi si domandi, per dire, se sia congrua la regola che vuole la riduzione del capitale di una società per azioni che sia andato perduto per più di un terzo. Ed è invero un dato di fatto che l’irrequietezza dei civilisti su questo piano è assai maggiore di quella dei commercialisti. Sono mediamente molto più ideologizzati di noi. Voglio dire che noi, nella nostra veste di business lawyers, siamo ideologicamente di assai più facile contentatura, forse in buona sostanza già paghi dell’aurea massima the business of business is business. Per la verità, nella cultura giuscommercialistica dei primi decenni post-bellici scorreva una corrente, forse non molto consistente, ma autorevole e agguerrita, di ispirazione marxista o, comunque, dichiaratamente di sinistra. Con apparente paradosso, accadeva che da quella parte venissero a volte le tesi interpretative più conservatrici o reazionarie: ciò serviva a dimostrare quanto il sistema capitalistico fosse retrivo e nemico delle classi lavoratrici. In ogni caso, dopo la caduta del muro di Berlino di questo orientamento non sembra essere rimasto molto. In generale, non mi sembra dunque di vedere intorno a me un Methodenstreit particolarmente cruento. Aggiungo che talvolta si registrano dissensi sul piano del discorso teorico sul metodo che poi lasciano poca o nessuna traccia nelle concrete applicazioni del metodo stesso. Qualche parola, con [...]
Poco ho da dire infine sul metodo inteso come modus operandi del ricercatore. Occorre però avvertire, prima di procedere oltre in questo discorso, che anche qui è necessario distinguere. Una volta ancora c’è un preliminare e fondamentale problema di oggetto. Per alcuni, infatti, la ricerca giuridica mira soprattutto a spiegare l’evoluzione storica attraverso la quale gli istituti sono venuti assumendo la fisionomia attuale. Per altri mira invece a raccogliere e ordinare la più vasta messe possibile di materiali relativi ad una norma o a un gruppo di norme, utilizzandoli poi eventualmente per tentare una sintesi concettuale che li rappresenti tutti fedelmente in una chiave unitaria (ciò che ho sopra chiamato l’algoritmo). Per altri ancora si interroga circa la collocazione della singola figura nell’ambito del sistema e circa i suoi rapporti con le figure affini. Vi sono poi alcuni i cui interessi si dirigono soprattutto verso la comparazione e che pongono pertanto a raffronto le discipline dettate da diversi ordinamenti a proposito degli stessi problemi, vedendo così in una prospettiva diversa e spesso illuminante la materia osservata. In nessuna delle vesti di questo elenco (il quale non pretende di essere esauriente e per altro verso trascura le infinite sfumature, varianti e sovrapposizioni delle ipotesi enumerate) mi riconosco esattamente, ancorché di tutte apprezzi il contributo. Per me, la ricerca parte essenzialmente dal caso, dalla quaestio, emergente dalla pratica, o anche immaginata, ma comunque relativa ad un problema ben definito e concreto. Tanto premesso, ricordo come autorevole opinione voglia, con riferimento alle scienze naturali, che non esistano ricette predeterminate. Si raccolgono dati, si formulano ipotesi, le si verifica, si correggono errori, e così via. Per quanto mi riguarda, e per quanto può interessare, vale lo stesso. Come ho già detto, non soffro/godo di precomprensione. Mi attengo dunque a quello che chiamo il «metodo Casablanca». Si narra che il leggendario film del 1942 con Humphrey Bogart ed Ingrid Bergman non avesse una sceneggiatura. Durante il giorno si girava, e la sera si scriveva il copione per il giorno successivo. Sicché nessuno sapeva se alla fine la Bergman sarebbe fuggita in aereo col marito o con l’ex-amante. Per la verità, l’invenzione è più [...]