L'Autore, esaminando il problema dell'accesso del risparmio all'investimento diretto in tempi di crisi, dichiara di voler evitare proposte di modifiche strutturali del sistema, preferendo suggerire una piccola serie di interventi di ritocco. Se-gnala la necessità di lasciare un ruolo operativo alle clausole generali, e di fissare una sanzione per la violazione delle regole secondarie sui contenuti dei contratti d'investimento.
Propone quindi di valorizzare il servizio consulenziale implicito in ogni (o quasi) servizio finanziario, dando rilievo, sotto il profilo dell'esattezza della prestazione ed in rapporto ad altre regole civilistiche (garanzia per vizi occulti, mancanza di qualità promesse, aliud pro alio), alle esigenze comunicate dal cliente. L'Autore suggerisce infine di accentuare la divaricazione tra regole dell'investimento diretto e regole del risparmio gestito, in particolare costruendo nuove regole di condotta e responsabilità per il risparmio gestito. Con riferimento all'articolazione della clientela in fasce, suggerisce un definitivo superamento delle dichiarazioni autoreferenziali. Conclude suggerendo una rivoluzione cultu-rale, che porti ad un incremento serio della cultura finanziaria di massa del Paese.
The Author examines the problems related to savers' access to investments in financial products at the time of economic crisis, and suggests a brief series of adjustments to the current regulations. Firstly, he stresses the need for maintaining a full operational role to the "general clauses" (transparency, diligence, fairness, etc.) provided by the law, and for establishing a legal sanction for a breach of the rules regarding the content of the investment contracts. Secondly, the A. underlines that financial counselling is included in almost all investment contracts, and recommends devoting special attention to the goals of the contract as expressed by the client, according to he general law of contract. The A. also calls for regulations which emphasize the differences between direct market investment and asset management. Finally, he supports a cultural revolution, which could lead to a serious development of the financial culture of the Italian investors.
1. Tempi di crisi e accesso del risparmio all’investimento diretto - 2. Necessità di lasciare un ruolo operativo alle clausole generali - 3. Una sanzione per la violazione delle regole secondarie sui contenuti dei contratti d’investimento - 4. Valorizzazione del servizio consulenziale implicito in ogni (o quasi) servizio finanziario - 5. Esigenze comunicate dal cliente, esattezza della prestazione e altre regole civilistiche. - 6. Alla ricerca del modello di “cliente medio” - 7. Per una accentuazione della divaricazione tra regole dell’investimento diretto e regole del risparmio gestito - 8. Nuove regole di condotta e responsabilità per il risparmio gestito - 9. A proposito dell’articolazione della clientela in fasce: per il superamento delle dichiarazioni autoreferenziali - 10. Necessità di una rivoluzione culturale - NOTE
Il mondo, i mercati, le donne e gli uomini cambiano costantemente. È per questo che nella storia del diritto commerciale si ripresenta costantemente il problema della costruzione, e, direi, della manutenzione, di regole e strumenti che favoriscano l'accesso del risparmio al sistema delle imprese. Come è noto, questo accesso può avvenire, ed avviene, a vario titolo, e fruisce di una vasta gamma di canali diversi. A partire da alcuni archetipi (azioni ed obbligazioni) si è sviluppata una fitta rete di strumenti, capace di ulteriore espansione, che si propongono, appunto, di intercettare e stimolare diverse propensioni e disponibilità all'investimento (1). Questa fioritura di strumenti si propone una serie di obiettivi, che l'esperienza rivela non sempre, e non facilmente, compatibili tra loro: si punta ad un investimento che sia il più diretto possibile, massimizzi i rendimenti, minimizzi i rischi, minimizzi i costi, anche e soprattutto i costi di intermediazione. Si riflette su questi temi anche in tempi di congiuntura positiva. Ma è chiaro che questa riflessione si esalta in tempi di crisi. Ed è quindi utile che la si riprenda oggi, visto che la nostra economia, anzi, l'economia mondiale, si trova in grave difficoltà, e non è affatto chiaro come e quando ne potrà venir fuori. Uno degli effetti più evidenti della crisi, infatti, è la riduzione degli investimenti e della propensione all'investimento. Occorre quindi provare, oggi, a rilanciare gli investimenti (2). È tuttavia da escludere che si possa, semplicemente, stimolare la bassa propensione all'investimento riducendo artificialmente i rischi dell'investimento stesso. Un'operazione del genere avrebbe sicuri costi preterintenzionali, capaci di azzerare i benefici attesi. I costi della tutela del cliente non efficiente verrebbero presumibilmente a scaricarsi sul cliente efficiente. Si potrebbe, in definitiva, realizzare un effetto opposto a quello perseguito. E cioè si potrebbero disincentivare, anziché incoraggiare, gli investimenti. La complessità del sistema e dei suoi problemi sconsiglia, in assenza di un quadro chiaro, grandi interventi strutturali. Suggerisce piuttosto modifiche circoscritte, da pensare per tentativi ed errori. In questo breve intervento vorrei proporre alcuni limitati ritocchi di alcune regole [...]
Tra i ritocchi alle regole segnalerei, in primo luogo, l'utilità di conservare un ruolo operativo alle clausole generali (diligenza, correttezza, trasparenza, ecc.) presenti nella normativa vigente. Esiste una tendenza dottrinale volta a negare che da queste clausole generali si possano estrarre obblighi specifici ulteriori rispetto a quelli già identificati dalla legge (3). Questa idea sarebbe giustificata dalla necessità di evitare il rischio di un incremento di discrezionalità del giudice che applicherebbe, appunto, le clausole generali. Inoltre, dare spazio alle clausole generali creerebbe il rischio di ridurre l'armonizzazione delle regole all'interno dell'Unione Europea, in quanto i giudici nazionali potrebbero avventurarsi in direzioni diverse. Sul punto, infatti, l'obiettivo dell'Unione è quello della "armonizzazione massima", coinvolgente anche le norme regolamentari. Io credo, invece, che sia importante conservare, alle clausole generali, il loro ruolo tipico, che è un ruolo di integrazione dei precetti normativi espliciti. Questo ruolo si rivela particolarmente prezioso a distanza di qualche tempo dall'intervento normativo, perché consente di creare nuove regole per comportamenti e problemi nuovi, cioè venuti ad esistenza dopo il varo delle regole specifiche. E dunque forse oggi questo ruolo non ci sembra particolarmente utile, essendo noi ancora molto vicini alla data di creazione delle norme; ma certamente potrebbe tornare utile domani. D'altra parte, l'armonizzazione comunitaria è un valore importante, ma essa viene comunque in tanti modi messa a rischio. La stesura delle regole scritte, stato per stato, ha, inevitabilmente, qualche risvolto differenziato; e diversa può sempre essere l'interpretazione, da parte di giudici di paesi diversi, di regole anche formalmente identiche. . Mi sembra importante, e utile, conservare la possibilità che gli stati diano un loro contributo allo sviluppo delle regole di dettaglio dell'Unione Europea. Questo in un quadro di concorrenza tra ordinamenti, che non significa, in questa prospettiva, race to the bottom, cioè gara a chi inventa le regole più accattivanti per gli operatori, ma, al contrario, competizione (sia pure solo all'interno della ricerca di contenuti positivi e nuovi delle clausole generali) nella ricerca di nuovi assetti normativi più razionali e più ragionevoli. [...]
Una seconda linea di intervento punta alla valorizzazione del ruolo dei contenuti obbligatori dei contratti di investimento fissati da regole secondarie (penso, per noi, agli artt. 37-38 del regolamento intermediari). Si dice da alcuni che il contratto il cui testo non contiene tutte le precisazioni imposte da queste norme regolamentari non potrebbe essere ritenuto affetto da nullità. La norma primaria, si dice, non attribuisce alla norma regolamentare "il potere di stabilire un "contenuto minimo" del contratto, sotto pena di nullità" (4) . Vero è che il tono della norma oggi è descrittivo più che prescrittivo. Ma credo che per norme di questo genere l'assenza di sanzioni non possa essere accettata così tranquillamente. La prospettiva della nullità, che non sembra esclusa, del resto, da autorevoli studiosi (5), merita di essere riaffermata senza esitazioni. E se proprio la si dovesse ritenere impraticabile, dovrebbe cercarsi seriamente altra strada, sul piano della sanzione risarcitoria, o sul piano della sanzione organizzativa. Questo punto può forse saldarsi alla prospettiva che ho appena prima illustrato. Un obbligo forte (cioè, assistito da una sanzione forte) di rispetto delle regole secondarie che prescrivono, per i contratti, contenuti più analitici, potrebbe derivare dalla presenza delle (o di una delle) clausole generali su ricordate (diligenza, correttezza, trasparenza, ecc.). In questa prospettiva, le norme regolamentari sarebbero sviluppo e concretizzazione delle clausole generali. Le si dovrebbe interpretare, ovviamente, in termini sostanziali, e non in termini, direi, burocratici. Ma sarebbe poi relativamente agevole reperire una sanzione per la loro violazione, quanto meno sul piano risarcitorio.
Una terza linea di intervento potrebbe puntare a valorizzare il servizio consulenziale che di fatto è implicito in quasi ogni servizio finanziario. Con eccezioni minime (penso alla execution only, che tuttavia ritengo debba essere ristretta entro confini molto precisi), quasi ogni operazione del mercato finanziario comprende, in pratica, anche (quanto meno, a livello preparatorio) una prestazione di consulenza (6). Questa linea potrebbe portare, esprimendocisi in termini un pò sbrigativi, un pò più di adeguatezza in luogo della attuale appropriatezza. O, forse, con un percorso diverso ma con risultati equivalenti, potrebbe rendere più pregnante il contenuto del dovere di appropriatezza - pur continuando a tenere distinta l'appropriatezza dall'adeguatezza. Ad esempio, imponendo all'intermediario, anche in caso di servizi oggi soggetti alla regola dell'appropriatezza (artt. 41-42, regolamento intermediari), di accertare anche la capacità finanziaria e gli obiettivi di investimento del cliente (come prescrive - con l'art. 40, comma 1, regolamento intermediari - la regola dell'adeguatezza).
Un ulteriore percorso punta a valorizzare le esigenze segnalate dal cliente, esplicitamente, e forse anche implicitamente, come motivo della sua operazione di investimento. Le esigenze che hanno spinto il cliente possono, secondo me devono, giocare un ruolo importante ai fini della valutazione dell'esattezza dell'adempimento. Non credo che questa strada si ponga in conflitto con il generale principio della irrilevanza dei motivi rispetto al contratto. L'esigenza che spinge il cliente all'acquisto del derivato, in realtà, direi entri a far parte della causa del contratto, in quanto la causa concreta del singolo derivato si specifica e si definisce nella negoziazione che porta alla conclusione del contratto di acquisto. Questo tipo di problema è emerso spesso a proposito dei derivati, ma si può porre a proposito di altre operazioni aventi ad oggetto altri strumenti. Ipotizziamo (propongo qui un esempio fittizio che raccoglie, con inevitabili semplificazioni, casi accaduti, e piuttosto noti, e la cui frequenza effettiva è difficile stimare, data l'opacità (7) del panorama complessivo delle vertenze su derivati), ipotizziamo, dicevo, che il cliente chieda un derivato a copertura di un finanziamento erogato dallo stesso intermediario (8). Ipotizziamo che gli venga fornito un derivato altamente speculativo, caratterizzato dalla presenza di opzioni esotiche e di effetti leva, con profili di pay-off non lineari e/o altre trappole nascoste. Questa operazione è stata spesso investigata sotto il profilo del rilievo delle autodichiarazioni del cliente (9) e del rispetto degli obblighi di informazione dell' intermediario nei confronti del cliente. Ma credo che una prospettiva forse più utilmente esplorabile sia quella proposta da una non minima serie di regole civilistiche. Mi riferisco all'art. 1490, c.c., che pone, a favore dell'acquirente, una garanzia per i vizi occulti che rendono la cosa "inidonea all'uso a cui è destinata". All'art. 1497, c.c., che sanziona la mancanza, nella cosa venduta, delle qualità "promesse o essenziali per l'uso cui la cosa è destinata". All'art. 1512, c.c., che costruisce, seppure solo in presenza di un impegno esplicito, una garanzia di buon funzionamento della cosa venduta. Ed infine, alla notissima fattispecie dell'aliud pro alio.Certo, ciascuna delle regole che ho ricordato ha i propri confini, anche rigorosi, e quindi propri [...]
Questa prospettiva, peraltro, solleva vari problemi, ai quali non è possibile qui dare risposta. Provo tuttavia a discuterne almeno uno. Le norme che ho richiamato ci dicono che i vizi rilevano se "occulti", cioè non identificabili da un acquirente medio; le qualità mancanti rilevano se attese o essenziali per un acquirente medio; l'esattezza della prestazione dev'essere valutata rispetto alle aspettative di un contraente medio. Occorre quindi fissare lo standard di capacità cognitive e di aspettative dell'acquirente; ricompare, anche se forse in una prospettiva un pò diversa, il problema del profilo del cliente, ben noto al diritto dei mercati finanziari. Credo che il modello del cliente medio (come i tanti altri modelli medi che il nostro sistema utilizza in tanti settori) non sia voluto al fine di raffigurare qualcosa come un livello medio effettivo. Rappresenta, piuttosto, un modello astratto, che va costruito in accordo con la sua funzione. E la sua funzione non può che essere (a mio parere) quella di distribuire nel modo più razionale (tra cliente e intermediario) i costi di informazione, governando al meglio l'assetto del mercato e la concorrenza, e puntando, possibilmente, a migliorandoli. Se guardiamo un pò più da vicino i costi di informazione che entrano in gioco direi che possiamo distinguere, con qualche inevitabile artificiosità, il costo dell'investimento in cultura finanziaria di base ed il costo di analisi del singolo strumento finanziario. Certamente, esiste una sicura interdipendenza tra questi due costi: la crescita della cultura finanziaria di base fa decrescere il costo di analisi del singolo strumento. Ma credo che la distinzione che ho proposto possa essere utile
Inviterei adesso coloro che mi hanno pazientemente seguito finora a lasciare per un momento questo filo di pensieri, al quale ritorneremo. Vorrei passare ad un tema apparentemente slegato da quello che ci ha occupato finora: il tema dell'accentuazione delle differenze di regime dell'attività dell'intermediario, e quindi di tutela del cliente, tra investimento diretto e risparmio gestito. Da tempo la sofisticazione del mercato finanziario ha dato vita ad una importante diversificazione tra strutture dedicate alla gestione del risparmio e strutture di supporto all'investimento diretto. Al cuore di questa divaricazione, l'idea che l'investimento diretto resta una attività rischiosa, mentre l'investimento mediato diviene operazione saggia e prudente. Credo, tuttavia, che il nostro sistema (forse anche altri) non abbia ancora sfruttato fino in fondo le potenzialità implicite in questa articolazione. E che, a livello di riflessione, non si siano colte tutte le implicazioni possibili di questa distribuzione degli intermediari in due fasce caratterizzate da compiti e missioni profondamente diversi. È strano, infatti, ma è così, anche la normativa vigente sembra non essersi compiutamente accorta di questa divaricazione, quanto meno se si guarda alle regole che costruiscono in termini tendenzialmente identici i doveri degli intermediari (penso all'art. 21 del regolamento intermediari, che propone un contesto di regole largamente unitario per tutti gli intermediari (10)). Nella prospettiva che vorrei proporre, ritengo occorra invece una significativa differenziazione, non nel senso di una maggiore o minore tutela del cliente, ma nel senso di tutele diverse, perché, a monte, diversi sono (ed è bene che lo diventino ancor più) i clienti, diversi sono (ed è bene che lo diventino ancor più) i modi di operare, diverse sono (ed è bene che lo diventino ancor più) le organizzazioni. In realtà, occorrerebbe perfezionare, portare a compimento, per così dire, il processo di divaricazione di questi due tipi di intermediari. Magari provando ad innescare un circolo a retroazione positiva tra divaricazione dei modi di operare e divaricazione delle regole.
Con riferimento al risparmio gestito, dovrebbe svilupparsi un serio miglioramento dell'informazione sui criteri e sui rendimenti degli investimenti. I gestori potrebbero provare a spostare l'accento dalla pura informazione al processo delle informazioni. Potrebbero provare davvero a tener conto della finanza comportamentale (11), potrebbero provare a cercare una migliore e più intensa comprensione delle aspettative e dei bisogni della clientela, dei suoi meccanismi psicologici, della sua specifica razionalità, delle sue emozioni. Ce ne dimentichiamo troppo spesso, ma per chiunque non abbia uno specifico addestramento è assai difficile capire se un trend è crescente o decrescente, ed è difficile cogliere quanto il variare della finestra temporale che si presceglie condizioni la rilevazione di una tendenza. Tutto ciò porterebbe ad un servizio migliore, ridurrebbe molti dei problemi attuali della responsabilità, promuo-verebbe significativamente la concorrenza tra gestori. Che potrebbe poi essere ulteriormente incrementata dalla progettazione di nuovi modelli di business, dallo sviluppo di nuove metodologie per la gestione dei rischi e la ottimizzazione dell'investimento (12). Se davvero si diversificassero i comportamenti, si potrebbero affinare le regole di condotta e quindi di responsabilità dei gestori. Si potrebbero, ad esempio, affinare le regole relative alla pubblicità ed alla chiarezza dei criteri di investimento. Il che porterebbe a sviluppi interessanti, ad esempio, sul piano (finora praticamente inesplorato. Ma questo è uno dei pochi settori per il quale le class actions potrebbero davvero funzionare anche da noi) della possibile responsabilità da investimento non conforme ai criteri preconfezionati e pubblicizzati. Ho detto prima, e mi ricollego al discorso che ho lasciato in sospeso, che i costi di informazione dell'investitore possono essere ricondotti a due tipi di costi: investimento in cultura finanziaria di base e costo di analisi della singola operazione o strumento. Ebbene, nel caso del risparmio gestito credo sia razionale che entrambi i costi vengano a gravare sull'intermediario. L'intermediario, del resto, operando in massa, potrà operare in termini standardizzati, e così potrà valersi di importanti economie di scala, che gli consentiranno una significativa minimizzazione dei costi. Un esito interessante, a mio modo di [...]
Con riferimento all'investimento diretto, appare razionale, invece, che il costo della cultura di base rimanga sul cliente, mentre il costo dell'informazione sul singolo strumento venga a gravare sull'intermediario. Questa regola potrebbe valere per tutti i clienti, anche per i clienti non professionali Riterrei, anzi, difficile pensare che si possa ulteriormente articolare la differenza di informazioni dovute a seconda che la clientela sia professionale o non professionale. Non è questo il momento per analizzare la distinzione della clientela in fasce diverse, con una disciplina dell'informazione diversificata per fasce, ancora presente nel post-MiFID, e neppure per effettuare una indagine analitica sulla composizione delle varie fasce. Dico solo che mi sembra difficile continuare a giustificare una categoria di clienti privati professionali su richiesta (13). L'esperienza delle dichiarazioni autoreferenziali è stata, francamente, piuttosto infelice (14), e non sarebbe male provare a farne del tutto a meno.
Concludo segnalando un'esigenza che mi pare insopprimibile, che è stata già da altri autorevolmente segnalata come fondamentale (15), e che spero sia stata già resa evidente dalle poche e modeste cose che ho detto. Modifiche e affinamenti delle norme possono avere effetti consistenti. Ma oggi sopratutto, in questo settore, è importante che si realizzi un incremento serio della cultura finanziaria. Sia da parte dei clienti, sia da parte degli intermediari. Il nostro paese ha pensato di sviluppare da zero un mercato finanziario di massa senza che preesistesse una cultura finanziaria di massa. Forse non si poteva fare diversamente. Ma questa cultura è ancora largamente da costruire. Prima che riforme normative, c'è da fare una rivoluzione culturale. Ma questa non credo competa, e comunque non credo possa essere fatta, dallo Stato, e neppure (diversamente dalla rivoluzione culturale a suo tempo auspicata da Mao Zedong) dalle "masse". È un'operazione lenta e complicata, richiede l'intervento di molti attori, richiede sinergie e tempi non brevi. Ma comunque, qualcuno dovrebbe pure avviarla.