Nel presente articolo l’Autrice sottolinea la novità della introduzione della società benefit quale strumento per un approccio multi-stakeholder al diritto societario che potrebbe rivelarsi un significativo passo avanti nell’attuale quadro giuridico; sottolinea, tuttavia, che la legge lascia un ampio potere agli azionisti in merito a come articolare il proprio scopo sociale o di pubblica utilità e, quindi, in merito alla decisione se e come rendere la società e il suo management responsabili verso gli stakeholders.
In this paper the Author underlines the novelty of the benefit corporation as a tool for a multi-stakeholder approach to corporate law that might prove as a significant step forward in the current legal framework; she also points out, however, that the law leaves a wide discretionary power to shareholders regarding how to articulate the benefit objective and therefore if and how to make the benefit corporation and its management accountable toward stakeholders.
KEYWORDS: benefit company – multistakeholder commitment – corporate social responsibility
CONTENUTI CORRELATI: società benefit - impegno multistakeholder - responsabilità sociale d’impresa
1. Le promesse della società benefit - 2. La funzione del modello e il problema dell’accountability - 3. La società benefit e la Corporate Social Responsibility - 4. Il ruolo degli amministratori e il sistema di enforcement - NOTE
Il modello della società benefit, così peculiare sul piano funzionale e per certi versi singolare nel suo apparato disciplinare, è stato accolto, sia in Italia, sia negli stati nordamericani che l'hanno originariamente concepito, da reazioni vivaci e contrastanti. Con un'enfasi piuttosto insolita, infatti, sul nuovo modello sono stati espressi giudizi tanto opposti quanto radicali, all'insegna dell'estremo apprezzamento da un lato e di un notevole scetticismo dall'altro. Le sue caratteristiche possono, del resto, spiegare tutto questo. Al modello si affida (anche) il compito di perseguire obiettivi di bene comune e già questo elemento attrae l'attenzione e rafforza le aspettative dei sostenitori di un'economia a vocazione sociale, generalmente favorevoli a tutte le soluzioni che sembrino idonee a raggiungere più efficacemente i risultati auspicati. Ma il dato veramente innovativo risiede nella natura profit dell'impresa benefit e nell'ibridazione del suo scopo lucrativo con le finalità sociali, ciò che porta a vederla e proporla come una formula capace di trasformare il modello di produzione di ricchezza consolidato ed esclusivamente orientato al profitto o, quantomeno, come un <<tentativo di correzione dell'attuale funzionamento dell'economia di mercato>>.[1] Per altro verso, il nuovo modello ha raccolto critiche impietose, sia in Italia che oltre Oceano. Da un lato si è sottolineata la sostanziale inutilità di una simile riforma, considerata la ritenuta - e già vigente - legittimità delle politiche di CSR poste in essere dagli amministratori di società lucrative ove considerate funzionali al valore di lungo termine dell'impresa e scrutinate secondo la business judgement rule. Dall'altro si è rilevata la debolezza di una disciplina che regola l'impegno sociale dell'impresa su base ancora troppo volontaristica per garantire seriamente gli interessi dei suoi stakeholder non finanziari e che per giunta potrebbe distrarre il legislatore da più efficaci iniziative di regolazione delle attività economiche a protezione del bene comune, basate su regole più stringenti.[2] È difficile, al momento, stimare le chance di successo della società benefit, le sue opportunità di impiego così come la capacità di assolvere a quella missione, in senso lato, sociale che vorrebbe esserle affidata. Le sue [...]
In una prospettiva sistematica è senz'altro da accogliere la tesi che reputa la disciplina della società benefit estranea a quelle impostazioni teoriche e/o soluzioni normative tese a regolare il conflitto tra istanze antagoniste (dei proprietari dell'impresa da un lato e di uno o più diversi stakeholder dall'altro) in funzione di un certo equilibrio desiderato mediante l'attribuzione di rispettive posizioni soggettive e la inquadra invece in un'opzione del legislatore volta ad agevolare i soci nella scelta, del tutto privata, di ordinare le proprie divergenti preferenze, aggregando e includendo obiettivi di bene comune nell'esercizio di un'attività comunque lucrativa[3]. A fondare la società benefit è infatti una decisione prettamente negoziale, circoscritta alla volontà degli shareholder che in tal modo compongono l'eventuale conflitto tra le loro diverse visioni degli obiettivi da assegnare alla propria impresa. E, trattandosi di un'impresa che resta pur sempre lucrativa (o mutualistica, se del caso), questa opzione può essere animata da diverse e varie motivazioni, da quelle più autenticamente altruistiche, a quelle, fondamentalmente egoistiche, di ricerca di nuove opportunità di mercato presso controparti sensibili ai temi della responsabilità sociale. Anche in tal caso si tratterebbe di un uso del modello del tutto legittimo se condotto assoggettandosi alla valutazione esterna di un soggetto indipendente e adempiendo agli obblighi di trasparenza e rendicontazione previsti dalla disciplina. Potrebbe, pertanto, non avere molto senso domandarsi se la società benefit presenti affinità funzionali con le iniziative tipiche del terzo settore o vada a collocarsi in quella zona di confine tra profit e non profit ora denominata "quarto settore". Vi è in atto indubbiamente una moltiplicazione delle forme di esercizio dell'attività di impresa con finalità sociali che si vanno specializzando e diversificando, sia in Italia che all'estero, connotato dalla riduzione delle distanze tra profit e non profit (v. ad es. le Low Profit Limited Liability Corporations, c.d. L3Cs, negli Stati Uniti) [4] tra le quali la società benefit può essere anche annoverata, ma le sue caratteristiche funzionali la rendono un unicum e un soggetto per certi versi ubiquitario, stante la flessibilità delle sue possibilità e finalità [...]
La natura volontaria dell'impegno sociale assunto dai soci di società benefit pone il modello nel solco della tradizione delle iniziative di Corporate Social Responsibility adottate da molte imprese profit, in cui la nozione originaria di CSR ha eletto proprio la volontarietà dell'approccio multistakeholder ad elemento caratterizzante il fenomeno e le sue manifestazioni tipiche.[6] Viene pertanto da chiedersi se la disciplina della società benefit rappresenti la soluzione tecnica che il legislatore ha voluto specificamente dedicare alle imprese che vogliono coltivare impegni di responsabilità sociale, creando una sorta di vincolo di tipicità capace di imporre, in tal caso, il ricorso al modello speciale creato ad hoc. Uno spunto in tal senso si potrebbe trovare nella normativa italiana secondo cui <<le società diverse dalle società benefit, qualora intendano perseguire anche finalità di beneficio comune, sono tenute a modificare l'atto costitutivo o lo statuto, nel rispetto delle disposizioni che regolano le modificazioni del contratto sociale o dello statuto proprie di ciascun tipo di società>> (art.1, comma 379, l. 208/2015). Sul piano sistematico potrebbe inoltre rilevare quello che viene talora indicato come il principale movente della disciplina, e cioè la volontà di risolvere in modo esplicito il dubbio, già sollevato dalla dottrina in materia di CSR, sulla legittimità della deroga allo scopo lucrativo nei tipi societari che intendono perseguire anche finalità sociali, fissando le condizioni per l'esercizio di tale opzione e con ciò proteggendo gli amministratori da eventuali azioni dei soci nel caso in cui la massimizzazione del profitto fosse compromessa dal perseguimento degli obiettivi di bene comune.[7] Se così fosse, l'adozione del modello della società benefit rappresenterebbe l'unica soluzione attraverso la quale le società costituite secondo i tipi lucrativi (o, eventualmente, mutualistici) potrebbero legittimamente perseguire anche finalità sociali. E, in effetti, la disciplina pare proprio pensata per le imprese che compiono una scelta di questo tipo. Credo tuttavia che questa conclusione possa valere solo per quella che potremmo definire opzione "forte" di responsabilità sociale dell'impresa, che si inquadra nelle caratteristiche specificamente delineate nel modello, in cui [...]
La legge italiana richiede che, nell'oggetto sociale della società benefit, siano indicate le finalità "specifiche" di beneficio comune che la società intende perseguire (art. 1, comma 377, l. 208/2015).[14] Un sufficiente grado di specificità dei programmi di responsabilità sociale adottati dalle imprese è già stato considerato, dalla dottrina che si è occupata di CSR, un elemento chiave per fronteggiare due diverse esigenze che si pongono in questi casi e cioè, da un lato, quella di evitare che l'ibridazione dell'interesse sociale possa compromettere il controllo sulla discrezionalità degli amministratori, dall'altro, quella di consentire un adeguato enforcement dell'adempimento degli impegni assunti.[15] Sul primo problema si è osservato come la vaghezza e la genericità con cui quei programmi sono talora formulati nei documenti aziendali inevitabilmente espande la libertà di azione degli amministratori, già amplificata dalla moltiplicazione degli interessi loro affidati nell'approccio multistakeholder, e può rendere quasi impraticabile un efficace controllo sulla correttezza del loro operato. Sul secondo si è fatto notare come un impegno a contenuto indeterminato è difficilmente azionabile con qualunque strumento si abbia a disposizione, sia dai soci o dagli organi sociali con i rimedi tipici del diritto societario (azioni di responsabilità contro gli amministratori, controlli interni ecc.), sia dai terzi che fossero eventualmente titolari di diritti o azioni nei confronti della società per l'adempimento dei predetti impegni.[16] Perfino l'efficacia del controllo esterno sulla corretta informazione al pubblico relativa alle politiche di carattere sociale o ambientale dichiarate dalla società ne potrebbe risultare compromessa. Non a caso, già prima che il legislatore della società benefit assoggettasse il mancato perseguimento delle finalità di beneficio comune alle regole in materia di pubblicità ingannevole (d. lgs. 145/2007) e alle disposizioni del Codice del consumo (d. lgs. 206/2005), queste ultime, all'art. 21, secondo comma, lett. b) definivano pratica ingannevole <<il mancato rispetto da parte del professionista degli impegni contenuti nei codici di condotta che il medesimo si è impegnato a rispettare, ove si tratti di un impegno fermo e [...]