Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
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Ignorantia legis excusat legislatori? (di Gaetano Molica)


A seguito dei provvedimenti di liberalizzazione adottati dal legislatore italiano tra il 2011 e il 2012, la L. n. 128/2011 - c.d. legge Levi sul prezzo di rivendita dei libri -, prevedendo la fissazione di un prezzo minimo di rivendita dei libri, sembrava essere stata colpita dalle disposizioni abrogatrici in essi contenute. Sorprendentemente, essa è stata oggetto di una novella, contenuta nell'art. 4, quarto comma bis, D.L. n. 91/2013[1], che ha aggiunto, all'art. 2, quinto comma, una lettera g-bis).

Che sorte riconoscere ad una disposizione che pretende di riformare una precedente legge abrogata?

Esponendo il quadro normativo anteriore alla novella del 2013 e analizzando una serie di provvedimenti cautelari adottati da diverse corti italiane che avevano ampiamente concluso per l'intervenuta abrogazione della normativa sul prezzo dei libri, il presente scritto cercherà di capire come conciliare l'intervenuta abrogazione con la più recente novella legislativa.

Following the liberalization measures adopted, between 2011 and 2012, by the Italian legislator, the Law no. 128/2011 seemed to have been repealed by the provisions contained in the mentioned measures. Surprisingly, it has been amended by art. 4, sub. 4 - bis, D. L. n . 91/2013, which added to the art. 2, sub. 5, a letter g - bis).

Exposing the regulatory framework before the 2013 reform and analyzing a series of judgments passed by various Italian courts that had considered the Law. No. 128/2011 repealed, the paper will try to figure out how to combine the repeal with the latest legislative developments.

Sommario/Summary:

1. Premessa - 2. La Legge Levi e la sua abrogazione. - 3. L’impatto delle liberalizzazioni secondo l’interpretazione di talune corti - 4. Qualche parola sulla posizione della giurisprudenza. Il dibattito e la novella operata dall’art. 4, co. 4-bis, D.L. n. 91/2013 - 5. Un possibile profilo di illegittimità costituzionale - 6. Le fondamenta di un approccio ricostruttivo al problema - 7. Una proposta di ricostruzione - 8. Considerazioni finali - NOTE


1. Premessa

L'ipertrofia, la complessità e la scarsa coerenza del tessuto normativo italiano[1] rappresentano problemi cronici, dei quali lo stesso legislatore ha ormai preso consapevolezza e sui quali ha deciso - non sempre in modo impeccabile - di intervenire[2]. Tuttavia, a dispetto dei tentativi di sfrondare una "selva[tanto]oscura", il legislatore si dimostra spesso incapace di rinunciare alla c.d.  microlegislazione -id est, l'adozione di pacchetti normativi volti a rispondere alle più disparate esigenze del momento - facendo così rientrare dalla finestra ciò che poco prima era stato fatto uscire dalla porta. Il risultato è una matassa inestricabile di disposizioni che risultano tra di loro faticosamente coordinabili. Senonché, alle volte, l'accennato fenomeno di parcellizzazione normativa - da tempo chiosato con appellativi poco gratificanti, quali "schizofrenia normativa"[3] - rischia di rendere il lavoro interpretativo un vero e proprio rompicampo, la cui soluzione stenta a palesarsi anche ai più convinti occamisti. Tutto ciò chiama in causa, dunque, i tradizionali criteri di soluzione delle antinomie, spingendo gli studiosi[4] a chiedersi se il canone della coerenza dell'ordinamento possa giustificare interpretazioni che forzino i "naturali" limiti applicativi dei summenzionati criteri. L'oggetto del presente contributo costituisce, a parere di chi scrive, paradigmatico esempio di quanto sin qui considerato. Come meglio si spiegherà oltre, la L. n. 128/2011 - c.d. legge Levi sul prezzo di rivendita dei libri - che in un primo momento sembrava caduta sotto la scure della sequela di provvedimenti di liberalizzazione adottati tra il 2011 e il 2012, è stata invece sorprendentemente oggetto di una novella, contenuta nell'art. 4, quarto comma bis, D.L. n. 91/2013[5], che ha aggiunto, all'art. 2, quinto comma, una lettera g-bis). Esponendo il quadro normativo anteriore alla novella del 2013 e analizzando una serie di provvedimenti cautelari adottati da diverse corti italiane che avevano ampiamente concluso per l'intervenuta abrogazione della normativa sul prezzo dei libri, si cercherà di capire come conciliare tale abrogazione con la più recente novella legislativa.


2. La Legge Levi e la sua abrogazione.

Con la L. n. 128/2011 - meglio nota come legge Levi, dal nome del proponente - il legislatore confermava e completava una disciplina restrittiva della libertà dei venditori al dettaglio di fissare il prezzo di vendita al pubblico dei libri, già introdotta, in via sostanzialmente sperimentale, con l'art. 11 della, L. n. 62/2001, affermando un limite massimo di sconto del 15% sul prezzo di copertina liberamente fissato, a monte, dall'editore o dall'importatore[6].             Il riferito regime, da un lato, veniva esteso alle vendite per corrispondenza "anche nel caso in cui abbia luogo mediante attività dicommercio elettronico"[7] e, dall'altro, veniva derogato, prevedendosi, per specifiche categorie di soggetti, la possibilità di operare sconti fino al 20%[8].             Infine, la legge consentiva agli editori - non ai distributori - di realizzare una volta l'anno, ma ad esclusione del mese di dicembre, campagne promozionali con sconti superiori al 15%, purché non maggiori di ¼ rispetto al prezzo di copertina[9].             Al di là delle ragioni adducibili a giustificazione di una simile politica di fissazione del prezzo[10] - la cui discussione, che non interessa solamente l'Italia, all'evidenza non rientra nell'economia del presente contributo -, ciò che realmente rileva è la struttura precettiva della normativa in esame; dalla lettura del testo normativo, invero, si evince agevolmente come questo contenga una sola disposizione dotata di autonoma precettività - tale essendo quella che fissa il limite massimo allo sconto praticabile dai dettaglianti -, mentre le residue previsioni si giustificano in relazione a tale principio cardine. In sostanza, posta la regola generale per la quale il rivenditore non può praticare sconti superiori al 15% sul prezzo di copertina dei libri, la legge introduce deroghe soggettive e la possibilità riconosciuta agli editori di dar vita a promozioni durante le quali è ammesso uno sconto maggiore.             Un solo precetto, dunque, che integra un'ipotesi di limitazione alla libertà dei distributori di utilizzare tutte le potenzialità offerte, in termini di competitività, [...]


3. L’impatto delle liberalizzazioni secondo l’interpretazione di talune corti

Che i decreti di liberalizzazione or ora richiamati avessero in qualche modo cambiato le carte in tavola, pur in un clima di apparente indifferenza per la novità[16], non è circostanza passata inosservata agli operatori della grande distribuzione organizzata (GDO). Nell'estate del 2013, infatti, forse indotte dall'incertezza in merito all'abrogazione della legge Levi[17], alcune catene di supermercati avevano dato vita ad una campagna promozionale avente ad oggetto la proposta di acquisto di libri di testo scolastici a prezzo di copertina, ma con il riconoscimento contestuale all'acquirente di un buono-sconto pari al 20% del prezzo del libro, da utilizzarsi per l'acquisto di beni diversi. L'iniziativa, non gradita a numerosi librai indipendenti, essenzialmente perché da loro non replicabile, veniva contestata dinnanzi a diverse corti italiane, nell'obiettivo di ottenerne in via cautelare l'inibizione e la rimozione della campagna pubblicitaria posta in essere per reclamizzarla. Secondo i ricorrenti, una simile proposta commerciale equivaleva, infatti, ad un'elusione dell'art. 2, secondo comma, L. n. 128/2011.             Al contrario, per i resistenti, la circostanza che i libri di testo fossero venduti a prezzo di copertina escludeva qualsiasi tipo di violazione della richiamata normativa, posto che, in seguito all'acquisto, il cliente avrebbe ricevuto soltanto un buono-sconto (concettualmente differente dallo sconto praticato sul prezzo del libro), da utilizzare su beni diversi dai libri; in ogni caso, dinanzi alle corti, gli operatori della GDO hanno speso l'argomento che la normativa invocata dalle ricorrenti doveva ritenersi abrogata dall'art. 3, D.L. n. 138/2011 e dall'art. 1, D.L. n. 1/2012.             I provvedimenti resi sulle domande così proposte, pur variamente argomentando in merito alla configurabilità di una violazione della Legge Levi[18], concludevano pressocché tutti, con differente profondità di motivazione, per l'intervenuta abrogazione della normativa invocata dai ricorrenti[19]. Essenzialmente, tre sono gli ordini di rilievi operati dai giudici. In primo luogo -  osservano i giudici - pur non comparendo nei decreti di liberalizzazione la nozione di "limitazione allo sconto", nondimeno questa deve ritenersi coperta dall'effetto abrogativo. Invero, il D.L. n. 138/2011 [...]


4. Qualche parola sulla posizione della giurisprudenza. Il dibattito e la novella operata dall’art. 4, co. 4-bis, D.L. n. 91/2013

Il processo logico-argomentativo sopra esposto sembra senz'altro condivisibile.             Chi scrive, infatti, non vede spazio per un'interpretazione dei sopravvenuti decreti di liberalizzazione che riesca a salvaguardare le disposizioni della legge Levi. Si è detto supra[21] come l'abrogazione espressa c.d. innominata, poiché non identifica il proprio oggetto, non si riferisce a disposizioni legislative, ma soltanto a norme; di conseguenza, nella loro consueta attività interpretativa, i giudici dovranno individuare quale tra le diverse norme ricavabili da una certa disposizione contraddica lalex abrogans.             Orbene, nel caso di specie, le disposizioni della L. n. 128/2011 contengono una norma principale - quella che fissa il limite massimo agli sconti - e una serie di norme corollario che ampliano o restringono l'ambito di applicazione di questo principio fondamentale. Una volta accertato che l'art. 2, limitando lo sconto imposto ai dettaglianti, introduce, per i medesimi, una restrizione all'attività di impresa, non pare che vi siano margini per estrapolare da tale disposizione ulteriori norme compatibili con la successiva svolta liberalizzatrice; ma, soprattutto, non pare che, una volta venuto meno il limite massimo agli sconti, si possano comunque ritenere vigenti le ulteriori disposizioni della legge Levi, stante il descritto rapporto di pregiudizialità logica della regola principale rispetto ad esse. La legge Levi, dunque, è interamente travolta dall'effetto abrogativo promanante dai provvedimenti di liberalizzazione.             Questa conclusione, poi, trova ulteriore conferma alla luce di una interpretazione sistematica che, benché non espressa nei provvedimenti richiamati, sembra comunque convincente ove si adotti una prospettiva che tenga conto dell'evoluzione dell'ordinamento. Giova, infatti, porre mente alla circostanza secondo la quale - come pure accennato - i singoli provvedimenti di liberalizzazione costituiscono, almeno nelle intenzioni del legislatore, parti di un più ampio disegno normativo diretto a stimolare l'iniziativa economica delle imprese, sul presupposto che un più intenso livello di competitività possa, da un lato, allineare l'ordinamento italiano ai precetti dell'Unione [...]


5. Un possibile profilo di illegittimità costituzionale

La sensazione di "disagio giuridico" che scaturisce dalla novella in discorso spinge, in primo luogo, a chiedersi quale sia la sorte di un prodotto normativo apparentemente senza oggetto. Si tratterebbe, infatti, di un provvedimento inidoneo a produrre qualsiasi effetto giuridico, incidendo su una disposizione che, in quanto abrogata, deve considerarsi espunta dall'ordinamento.             Tale osservazione consente di richiamare un corposissimo filone di indagine, prevalentemente giusfilosofico, che, a partire dal Ranelletti[32], si è interrogato sulla possibilità di accertare lanullità di una legge che, pur apparendo tale, in realtà non lo sia a causa di vizi talmente gravi da non permettere la sussumibilità dell'atto in concreto adottato nello nozione astratta di "legge".             Senza voler ripercorre un dibattito certo profondo[33], soprattutto per qualità e raffinatezza delle posizioni, basti qui dire che, nelle più recenti teorizzazioni, il vizio di nullità della legge ricorrerebbe in due casi.             In una prima classe di casi, che corre sul piano dei requisiti formali della legge, una disposizione sarebbe nulla/inesistente ogniqualvolta sia stata adottata in totale dispregio delle regole preposte alla disciplina del processo legislativo, come, ad esempio, una modifica costituzionale attuata con legge ordinaria[34].                Un altro gruppo di cause di nullità, stavolta di matrice sostanziale, sarebbe ravvisabile "per ragioni di contenuto materiale, quando si tratti della negazione delle regole fondamentali che realizzano la trama essenziale del sistema costituzionale"[35].             In entrambi i casi, si sostiene che il giudice, trovandosi dinnanzi ad una non-legge, non avrebbe alcun obbligo di applicarla, non appartenendo la medesima all'ordinamento giuridico.             Orbene, non c'è dubbio che, per le caratteristiche del nostro ordinamento, le teorie in discorso siano di difficile applicazione pratica. Differentemente da quanto avviene per gli atti amministrativi, il giudice non ha alcun potere decisionale [...]


6. Le fondamenta di un approccio ricostruttivo al problema

Un buon punto di partenza potrebbe essere l'individuazione di ciò che la novella sicuramente non è, onde sperare di avvicinarsi, per sottrazione, alla soluzione. L'analisi - è bene precisarlo - deve essere condotta avendo riguardo a tutti gli elementi rilevanti che accompagnano la quaestio iurise che, ad una breve ricognizione, sembrano essere: la salvaguardia dell'effetto caducatorio accertato e prodottosi a seguito dei decreti di liberalizzazione e la necessaria individuazione di un effetto utile della novella del 2013. Tenendo a mente questo obiettivo, potrebbe, prima facie, volgersi lo sguardo al diritto comunitario, nel senso di fare appello alla giurisprudenza europea occupatasi di scrutinare la sorte delle disposizioni nazionali in contrasto con i principi comunitari in materia di concorrenza. Si potrebbe, invero, ritenere che la legge Levi - introducendo ex legeun'ipotesi di resale price maintenance- si risolva in una misura pubblicistica suscettibile di restringere la concorrenza, svilendo l'effetto utile della norma di cui all'art. 101 Tfue, e, pertanto, possa essere disapplicata ad opera di qualsiasi operatore giuridico degli Stati membri[36]. Tuttavia, nella materia libraria, la stessa giurisprudenza comunitaria, chiamata a valutare la compatibilità della normativa francese sul prezzo unico dei libri con il diritto europeo della concorrenza, ha preferito vestire i panni di Ponzio Pilato, essenzialmente demandando agli Stati membri la scelta - politica - in merito all'an e al quodomodo di un intervento nella materia considerata, purché la disciplina interna non arrechi ostacolo o nocumento alla libera circolazione delle merci nel territorio dell'Unione[37]. Posto, allora, che il diritto dell'Unione non offre, nel caso esaminato, utili appigli per dirimere il nodo interpretativo, non resta che guardare agli strumenti offerti dal diritto nazionale.             Tenendo a mente questo dato, la vicenda in esame potrebbe essere ricondotta,prima facie, nello schema della reviviscenza della norma abrogata.             In entrambi i casi, infatti, una norma abrogata torna a produrre effettipro futuro, senza efficacia retroattiva. A ben vedere, tuttavia, tale conclusione ermeneutica deve ritenersi non praticabile. Pur essendo ampiamente dibattuti i presupposti del ricorso alla reviviscenza[38], [...]


7. Una proposta di ricostruzione

Terminata lapars destruens, si può tentare, adesso, un approccio ricostrutivo.             A parere di chi scrive, la soluzione può essere ricercata avendo riguardo agli effetti che la novella del 2013 è in grado di produrre, in termini di innovatività dell'ordinamento.             Come visto, in estrema sintesi, con il D.L. n. 91/2013, il legislatore ha inteso rimuovere ogni limite agli sconti nella rivendita di libri alle biblioteche e agli archivi nazionali, sull'erroneo presupposto che vigesse una normativa restrittiva in materia. Il legislatore, dunque, intendeva favorire tale settore, con una manovra espansiva che consentisse agli operatori delle biblioteche di reperire risorse a prezzi più bassi rispetto alla generalità dei consociati.             Orbene, data la descritta situazione e appurata l'intervenuta abrogazione della legge Levi, il risultato cui si è in fatto pervenuti non è altro che la riproposizione di un principio di libertà nell'attività di impresa che era già stato sancito con i decreti di liberalizzazione del 2011/12. In altri termini, l'art. 4, quarto commabis, D.L. n. 91/2013 si riduce a una ridondanza normativa, posto che, eliminando i limiti agli sconti in favore del settore bibliotecario, non produce nuovo diritto, nella misura in cui ogni tetto agli sconti - e non solo per i bibliotecari - era già caduto con i provvedimenti di liberalizzazione.             L'analisi potrebbe, allora, ritenersi conclusa, essendo stata trovata una soddisfacente soluzione interpretativa che non rimette in discussione l'effetto abrogativo promanante dai decreti di liberalizzazione. Tuttavia, l'indagine non sarebbe veramente completa ove non si considerasse la seguente diversa ipotesi:quid iurisnell'eventualità in cui legislatore, invece di agire nel senso descritto, avesse introdotto una nuova regola giuridica?             Si immagini che, con l'art. 4, quarto commabis, D.L. n. 91/2013, il legislatore avesse previsto una mitigazione del limite allo sconto, senza però abolirlo, ad esempio consentendo che, in favore del settore bibliotecario, potesse essere praticato uno sconto [...]


8. Considerazioni finali

La realtà, come è evidente, è che attraverso la novella del 2013, il legislatore ha dato vita ad un vero e proprio corto circuito giuridico. Non si intende, naturalmente, sindacare il merito politico di un intervento normativo quale quello di cui all'art. 4, quarto commabis, D.L. n. 91/2013. Semplicemente, si è cercato di porre l'accento su un prodotto normativo difettoso, non solo per assenza di tangibile manifestazione di volontà espressa degli organi legislativi, ma soprattutto per la grossolanità dell'intervento legislativo analizzato. Non v'è chi non veda, infatti, come la soluzione che si è cercato di offrire nel corso del presente contributo costituisca un tentativo di salvaguardare la coerenza dell'ordinamento anche in ipotesi assolutamente estreme, sacrificando ben altri valori, quali la solidità dei criteri ermeneutici o le consuete tecniche di redazione legislativa. Il disordine normativo, in altri termini, chiama l'interprete a forzare i capisaldi del sistema normativo per cercare di giustificare una "svista" del legislatore, stressando l'architettura dell'ordinamento e contribuendo, più che attenuando, all'incertezza del diritto.             Il buon senso, cioè, dovrebbe semplicemente indurre a trattare una disposizione priva di oggetto - perché non si vede cosa altro possa essere l'art. 4, quarto commabis, D.L. n. 91/2013 - alla stregua di un mostro giuridico, come tale privo del diritto di cittadinanza nell'ordinamento.             Tuttavia, è proprio il rispetto delle regole del gioco a distogliere l'interprete da una conclusione tanto comoda, quanto pericolosa, perché foriera di future e ben più gravi instabilità del sistema.             Come osservato in dottrina[48], il ruolo dell'interprete è senz'altro quello di costruire coerenza dove apparentemente (e non solo) questa difetti e, dinnanzi ad interventi normativi sempre più sconnessi e qualitativamente scadenti, sforzarsi di ricercare una complessiva coerenza precettiva.             Tuttavia, dinnanzi all'inadeguatezza della produzione legislativa, ogni tentativo di ricostruzione sul singolo dato normativo sarà vanificato dal [...]


NOTE