La crisi finanziaria sviluppatasi fra il 2007 e il 2008, poi rapidamente propagatasi all'economia reale, ha posto un interrogativo "di fondo", che investe la sostenibilità stessa dell'attuale modello di economia di mercato.
Nel presente contributo, dopo aver brevemente illustrato i contenuti e gli elementi costitutivi di detto modello, ci si sofferma ad analizzare tre diverse teorie (l'economia della felicità, la teoria della decrescita e l'economia del dono), elaborate nel corso della seconda metà del Novecento, che si pongono come alternative rispetto all'economia di mercato e sono oggi invocate come possibili strumenti di superamento della crisi del capitalismo, e se ne traggono alcuni spunti di riflessione sul piano della teoria generale del diritto e della teoria dell'impresa.
The financial crisis of 2007-2008, rapidly spread to the real economy, questioned the sustainability itself of the current market economy model.
This article first provides a brief overview of the contents and the fundamentals of the above-mentioned model, then focuses on three different theories (the economics of happiness, the degrowth theory, the economic theory of gift-giving) that emerged in the second half of the 19th century. These theories offer alternative approaches to those suggested by the classic market economy model and are currently mentioned as possible means to overcome the crisis of capitalism.
In light of the above, the article draws some conclusions about the general theory of law and the theory of the firm.
1. Crisi e ricerca di modelli alternativi all’economia di mercato. - 2. I presupposti antropologici e le condizioni dell’economia di mercato: utilitarismo, comportamentismo e consequenzialismo. - 3. Critiche tradizionali e critiche recenti. - 4. 4. L’economia della felicità - 5. L’economia della decrescita - 6. L’economia del dono - 7. Qualche riflessione per il giurista - NOTE
La crisi finanziaria che si è sviluppata fra il 2007 e il 2008, travolgendo inizialmente numerosi e importanti istituti creditizi e finanziari, si è rapidamente trasmessa all'economia reale per poi colpire anche il debito degli Stati sovrani innescando in vaste aree del globo una spirale recessiva, di cui si fa fatica a cogliere la fase terminale[1]. Se è pur vero che la crisi ha dimensioni globali, è altresì evidente che essa accentua le debolezze istituzionali e strutturali di alcune regioni e di alcuni Paesi, in particolare le carenze di "governance" efficace ed efficiente dell'Unione Europea e nel suo ambito degli Stati, come l'Italia, che non hanno saputo affrontare per tempo le necessarie riforme strutturali e il riammodernamento del tessuto industriale attraverso adeguate politiche innovative. Ma la crisi ha posto anche un interrogativo più radicale, sul quale è opportuna la riflessione non solo di economisti e sociologi (che si sono mostrati più sensibili alle trasformazioni epocali che si accompagnano normalmente ai processi di crisi profonda della società e dell'economia), ma altresì di giuristi (che in verità appaiono, sotto il segnalato profilo, meno propensi a spostarsi da un mero lavoro interpretativo-esegetico ad un più ampio lavoro ricostruttivo delle molteplici "razionalità" che percorrono il sistema). E l'interrogativo di fondo investe la sostenibilità stessa del modello di economia di mercato che ha caratterizzato negli ultimi decenni, dopo il crollo delle economie socialiste centralizzate, in maniera pressoché generalizzata lo sviluppo delle società non solo occidentali: la crisi che ha colpito finanza e sistema produttivo deve considerarsi crisi del sistema capitalistico in sé o si tratta di crisi congiunturale dovuta ad abusi delle regole di mercato e ad avidità di alcuni operatori? assistiamo insomma ad una "crisi di civiltà" o ad alcune "mele marce" e a singoli "fallimenti di mercato", cui è possibile porre rimedio pur sempre nell'ambito del sistema capitalistico complessivo? Nella seconda metà del Novecento si sono [...]
Secondo una nota definizione fornita da Ludwig von Mises, "l'economia di mercato è il sistema sociale della divisione del lavoro e della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ognuno agisce per proprio conto; ma le azioni di ognuno tendono tanto alla soddisfazione dei bisogni degli altri che dei propri. Agendo, ognuno serve i suoi concittadini. D'altra parte, ognuno è servito dai suoi concittadini. Ognuno è in sé stesso mezzo e fine; fine ultimo per sé stesso e mezzo per gli altri nei loro tentativi di raggiungere i propri fini"[2]. In sostanza l'economia di mercatosi traduce nello "scambio di equivalenti", secondo un meccanismo che vede una pluralità indefinita di operatori che offrono e domandano beni e servizi senza imposizioni esterne, determinando così il "prezzo" di mercato dello scambio. L'esito più favorevole di tale meccanismo si apprezza in termini di "giustizia retributiva" (scambio di equivalenti), ma esso trascura in quanto tali le questioni di "giustizia distributiva" nella società, partendo dalla teorizzazione di unhomo oeconomicuscome individuo razionale la cui azione è mossa dal principio dimassimizzazione dell'interesse personale. L'equilibrio collettivo e sociale non è che la conseguenza di questa razionalità individuale: la "mano invisibile" del mercato rende gli scambi "efficienti" e consente di raggiungere il miglior risultato possibile. D'altro canto è a tutti ben presente l'icastica descrizione che ne fa Adam Smith, unanimemente riconosciuto come il padre dell'economia moderna: "Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, bensì al loro egoismo, e con loro non parliamo mai dei nostri bisogni, bensì dei loro vantaggi"[3]. Secondo molti pensatori questo modello economico pone capo ad una forma di utilitarismo individuale (o personale) e di comportamentismo psicologico. Il principio di massimizzazione dell'interesse personale coinciderebbe con il principio di massimizzazione dell'utilità individuale (si pensi alla scuola dell'utilità marginale[4]), intesa come piacere o assenza di dolore suscettibile [...]
Il modello di sviluppo rappresentato dall'economia di mercato è stato ben presto assoggettato a critiche e correzioni. Critiche tradizionali hanno sottolineato che un mercato efficiente (che come si è già detto non produce necessariamente equità distributiva) presuppone la realizzazione di condizioni ideali difficilmente riscontrabili nella realtà operativa. In particolare esso implica: a) concorrenza perfetta (piena ed effettiva) con libertà di accesso ai singoli mercati; b) trasparenza informativa; c) assenza di esternalità, cioè di costi che si trasferiscono sui terzi (costi ambientali, costi sociali, etc.). Il modello ideale non si dà mai allo stato puro nella pratica quotidiana: necessita di continue correzioni e subisce "fallimenti" soprattutto nella produzione dei "beni pubblici" anche a causa del fenomeno del "free rider", su cui l'economia di mercato non è in grado di operare. Critiche più recenti, fondate su analisi sociologiche e di psicologia cognitiva e sperimentale, hanno contestato il fondamento antropologico dell'economia di mercato: sul piano individuale (microeconomico) - si è osservato - i processi decisionali effettivi dell'uomo non corrispondono al modello astratto dell'homo oeconomicus, le motivazioni dell'agire umano sono più complesse e meno "razionali" rispetto al modello costruito dall'economia classica o anche neo-classica, e di tanto anche la teoria economica dovrebbe tener conto (nel 2002 lo psicologo cognitivo Daniel Kahneman e l'economista sperimentale Vernon Smith furono insigniti del premio Nobel per l'Economia, proprio per i loro studi che mettevano in discussione la razionalità dell'homo oeconomicusdella teoria neoclassica)[7]; sul piano comunitario (macroeconomico) il principio di "accumulazione capitalistica" ovvero della crescita continua/illimitata non solo è di per sé erroneo ed insostenibile ma si rivela a lungo termine distruttivo, poiché si scontra con il limite biofisico delle risorse naturali e con i relativi costi ambientali, nonché con il limite sociale in quanto provoca pericolose ineguaglianze e dissolve i legami sociali[8]. Di qui la ricerca di strade alternative.
L'economia della felicitàparte da una duplice constatazione. Le economie di mercato, nel presupposto proprio alla "psicologia comportamentale" che la felicità individuale - in quanto "stato d'animo soggettivo" - è grandezza non misurabile, tendono a calcolare lo sviluppo del benessere aggregato di una comunità attraverso indici che ne rilevano la ricchezza o la reddittività materiale. E in proposito si utilizza diffusamente il PIL (GDP in inglese), che però è da molti criticato come idoneo misuratore dello sviluppo complessivo di una società. In secondo luogo si assiste ad uno strano paradosso, già rilevato nel 1974 da Easterlin (economista dell'Università della California Meridionale), secondo cui, pur essendo cresciuti in misura considerevole dal dopoguerra in poi i livelli della ricchezza e del reddito individuali nei Paesi occidentali, lafelicità percepitadalle persone non è aumentata di pari grado ed il rapporto fra reddito e felicità presenta un andamento a curva di U rovesciata. A proposito della fallacia del PIL (come osserva Giorgio Nebbia[9]), si può ricordare quanto ebbe ad affermare Robert Kennedy l'8 marzo 1968 nel corso della campagna elettorale: "Troppo e troppo a lungo nel nostro paese abbiamo fatto coincidere i valori della nostra società con la pura e semplice accumulazione delle cose materiali. Il nostro prodotto interno lordo è oggi (1968) di 800 miliardi di dollari, ma se dovessimo misurare il valore del nostro paese dal PIL ci accorgeremmo che esso comprende l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre strade dai morti e feriti per incidenti stradali. Comprende il costo delle serrature di sicurezza delle nostre case e quello delle prigioni per coloro che la violano. Comprende la distruzione delle nostre foreste e la perdita del paesaggio distrutto dall'edilizia selvaggia. Aumenta con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e dei veicoli blindati della polizia per fermare le rivolte nelle nostre strade. Comprende le armi e i coltelli e i programmi televisivi che esaltano la violenza per vendere giocattoli per i nostri figli. Il prodotto interno lordo non tiene conto della salute dei nostri figli, della qualità della loro istruzione, della gioia dei loro giochi. Non [...]
Se l'economia della felicità punta a un diverso modello di sviluppo che miri a valorizzare i beni relazionali, l'economia della decrescita, affermatasi a partire dagli anni Sessanta del Novecento ad opera in particolare del filosofo Serge Latouche, trae spunto invece proprio dalla critica radicale alla nozione di "sviluppo" e alla teoria dello "sviluppismo", elaborata dopo la seconda guerra mondiale e abbracciata in particolare dal presidente americano Harry Truman (1949), nel presupposto di una divisione del mondo in paesi del Nord e paesi del Sud ovvero in paesi sviluppati e paesi sottosviluppati. Lo sviluppismo, inizialmente teorizzato come politica di aiuto solidale che i paesi del Nord avrebbero dovuto fornire ai paesi del Sud per agevolarli nel perseguimento dello sviluppo economico, è stato considerato dai critici uno strumento di neo-imperialismo e una mascherata continuazione della politica dicolonizzazionedei paesi di nuova indipendenza. Lo sviluppismo predica l'effetto sgocciolamento (trickle down effect), nel senso che, favorendo lo sviluppo dell'economia nel suo complesso, i benefici si trasmetteranno automaticamente dagli strati ricchi agli strati poveri della popolazione (ricorda molto da vicino la polemica fra esigenze redistributive e incremento della produttività, quale presupposto per consentire l'aumento salariale ai lavoratori dell'impresa). I teorici della decrescita ritengono che questa visione dello sviluppo sia astratta, poiché lo sviluppo reale si è tradotto nella mercificazione dei rapporti umani e dei rapporti con la natura nonché nella sostanziale occidentalizzazione del mondo. Esso si nutre di almeno tre paradossi: a) il "paradosso della creazione dei bisogni", poiché la crescita economica pretende di soddisfare i bisogni fondamentali dell'umanità attraverso la creazione di tensioni psicologiche e di frustrazioni; b) il "paradosso dell'accumulazione e delle disuguaglianze", che si basa sull'idea di ingrandire la torta, piuttosto che disputarsi le fette di una piccola torta, in modo che ognuno ne abbia una fetta più grande e che tutti ne abbiano a sufficienza. Di fatto, però, l'accumulazione non è possibile senza che si accompagni ad una grande disuguaglianza dei redditi; c) il "paradosso ecologico", per cui si [...]
La critica che i sostenitori della decrescita muovono all'economia di mercato capitalistica è diretta, dunque, fondamentalmente al principio di accumulazione che presuppone una crescita illimitata[14]. L'economia del dono, a sua volta, attacca un altro principio basilare dell'economia neoclassica, e cioè lo "scambio di equivalenti" su cui si fonda il prezzo di equilibrio delle relazioni mercantili. L'economia del dono è invece una forma di economia basata sul "valore d'uso" degli oggetti, sulla capacità di un bene o di un servizio di soddisfare un dato fabbisogno. Tuttavia, anche nel "dono" - si riconosce - è presente un elemento di "reciprocità", sia a livello individuale sia a livello di comunità; e in certe culture ciò tende a farsi norma sociale. Come si è sottolineato in apertura, questo settore di studi economici trae spunto dal "Saggio sul dono" (1925) del sociologo e antropologo francese Marcel Mauss (nipote e allievo di Durkheim), che studiò alcune società indigene che basavano la loro economia per l'appunto sul dono, piuttosto che sugli scambi monetari. Il rituale del Potlatch[15], praticato da tribù indiane collocate sulla costa nord-ovest del Canada e degli Stati Uniti e in molte altre zone del Pacifico[16], si svolgeva nel corso di ricevimenti offerti da un clan o da un gruppo leader all'interno del clan ad altri clan vicini o comunque ai propri ospiti e consisteva in uno scambio spontaneo di ricchezza o di doni, che potevano avere carattere materiale (cibi secchi, zucchero, piante, etc.) o culturale (canti e danze). Il più delle volte questi rituali si svolgevano durante l'inverno, poiché nei mesi caldi si andava a caccia e si accumulavano risorse, e comunque si volgevano in occasioni particolari come nascite, matrimoni, compleanni. Avevano una sostanziale funzione di redistribuzione della ricchezza basata sul principio della volontarietà che tuttavia creava nel donatario l'obbligazione morale del contro-dono. Esprimeva altresì nel clan o tra clan anche una relazione di potere e di gerarchia sociale, nella misura in cui la distribuzione avveniva da parte della famiglia o della tribù più [...]
Quali riflessioni possono essere sviluppate dal giurista dopo questa breve rassegna dei cd. modelli alternativi all'economia di mercato? Le ricadute sono, in verità, molteplici e di vario significato. E' ovvio che in questa sede è possibile indicare solo alcuni spunti senza pretese di completezza o di analitica argomentazione, al fine di offrire un contributo all'avvio di un dibattito in gran parte ancora tutto da costruire. E' parimenti ovvio che molte osservazioni affondano le proprie radici nella storia recente e meno recente della nostra cultura giuridica e delle nostre istituzioni. Vi è un primo spunto che si colloca sul piano della teoria generale. E' ormai da tempo superato il mito razionalistico e positivistico delle scienze "pure", ivi compreso il "diritto puro". La pretesa kelseniana, pur comprensibile difesa in tempi di oscurantismo politico, di liberare il diritto da ogni elemento estraneo (ideologico o sociologico), rischia di tradursi in vuoto formalismo e in un disegno di eccessiva astrazione, analogamente alla razionalità dell'homo oeconomicusdella teoria economica neoclassica, astrazione dietro cui si celano spesso precise scelte ideologiche e antropologiche. Strumento di analisi di alcune specificità del momento giuridico (la norma come qualificazione giuridica del fatto sociale), il normativismo trascura la circostanza che la costruzione dell'ordinamento giuridico non può prescindere dai contenuti valoristici che esso intende promuovere (senza con ciò trasformarsi in Stato etico). E del resto, in questa direzione si muovono le scelte compiute dalla nostra Costituzione repubblicana, quando pone al centro del proprio disegno istituzionale la "persona", al contempo individuo e componente di formazioni sociali. La necessità di recuperare all'analisi giuridica gli apporti che provengono da altre discipline, la cui distinzione è mossa dai limiti gnoseologici della nostra capacità di comprensione, discende dalla inscindibile unitarietà vivente di individuo e società cui il diritto è applicato[19]. Un secondo elemento di riflessione ripropone il dibattito costituzionale sui fondamenti del nostro diritto dell'economia: un dibattito che il sempre stimolante Natalino Irti ebbe a provocare verso la fine degli anni [...]